mercoledì 14 marzo 2012

La mano della morta

Fu un caso. Dagli e ridàgli un tiro maldestro invece che in porta aveva mandato il pallone al di là del muro che congiungeva la parete della chiesa con quella della rampa di scale che sale a San Domenico lasciandoci a metà partita, allibiti, sudati e con un palmo di naso. Quasi ogni pomeriggio ci si trovava lì, nel cortile sottostante il pozzo del Santuario di Santa Caterina, con un pallone raccogliticcio e tanta voglia di giocare. Erano gli anni Cinquanta, Fontebranda era piena di ragazzi che cercavano di ingegnarsi in qualunque modo per dar libero sfogo alle energie giovanili e quell'idea di andare a tirar quattro calci a una palla in quel luogo tranquillo (santo, direi), lontano dalle case, dove non passavano auto e nascosto fra quattro mura, era stata salutata con entusiasmo da tutti noi. C'è da dire che i frati Olivetani (i custodi del Santuario) non erano rimasti particolarmente entusiasti dall'idea e che le suore cateriniane, insofferenti del baccano che inevitabilmente saliva fin dentro la chiesa disturbando il raccoglimento loro e dei fedeli, avevano protestato parecchio contro questa nostra iniziativa che, invece a noi, piaceva al punto da considerarla irrinunciabile; la consideravamo insomma un appuntamento fisso al quale non volevamo in nessun modo mancare. Si era arrivati così ad una specie di tacito compromesso: quando si sentivano le campane della funzione serale suonare per la seconda volta, noi, seppur a malavoglia, raccattavamo il pallone e le nostre giacche e ci trasferivamo a far cagnara da un'altra parte.
Quella sera invece la partita rischiava di abortire prematuramente; la palla era sparita al di là del muro e, oltre i soliti accidenti a chi ce l'aveva buttata, non sapevamo come fare per andare a riprendercela.
Beh, il bisogno aguzza l'ingegno. Dopo essermi proposto per andare a cercar di recuperare la palla ecco che con l'aiuto di due o tre volenterosi che mi spinsero dal basso mi trovai in breve a cavalcioni della sommità del muro, a tre metri da terra.
Scendendo dall'altra parte (era facile: c'erano più appigli) mi trovai in una specie di corridoio artificiale; le due pareti vicinissime della chiesa e della scalinata formavano infatti una specie di vicolo buio (lì non ci batteva mai il sole) e strettissimo, largo poco più di un metro, umido e scivoloso per il muschio che copriva il pavimento in mattoni; il passaggio arrivava fino in fondo, poi, all'altezza dell'alta parete di tufo, voltava repentinamente a sinistra. Nonostante la voglia di prendere la palla (era proprio lì, ai miei piedi) e tornarmene a giocare con i miei amici volli andare a vedere cosa c'era al di là dell'angolo (sono sempre stato curioso come un gatto). Beh, il passaggio proseguiva per pochi metri costeggiando la parte opposta della chiesa e poi si arrestava davanti ad un grosso cancello di ferro. Ma...
Beh, era strano. Sulla destra, scavata nel tufo, si apriva l'imbocco di quella che sembrava essere una caverna, o una grotta. L'apertura di quella che mi si rivelò essere una galleria era alta poco più di 80 centimetri; proseguiva per due o tre metri in avanti, poi, voltando ancora a sinistra, si addentrava nel tufo perdendosi nel buio. Ero sbalordito, eccitato, con la mente in subbuglio, in preda a mille domande. Cos'era quel tunnel misterioso? Dove portava? A cosa serviva? Una volta recuperata la palla ed esser tornato dai miei amici, non potei fare a meno di raccontare la mia scoperta e per quella sera, dopo aver terminato la nostra partita, non si parlò d'altro.
La notte non ci dormii. Un passaggio segreto! Dove conduceva, perché era stato costruito... mille domande, mille congetture fantasiose mi affollavano la mente. Ero deciso: dovevo essere il primo a esplorarlo.
Il giorno successivo, munito di candela e di scatola di fiammiferi (presi da casa all'insaputa della mamma) trovato Giuseppino (in quegli anni eravamo pressoché inseparabili) gli raccontai cosa mi proponevo di fare e lui accettò subito di seguirmi in quell'impresa. Attenti a che nessuno ci seguisse e facendo di tutto per non dare nell'occhio, scendemmo nel cortile deserto, poi, aiutandoci a vicenda, fu facile scavalcare il muro.
Scesi dall'altra parte e arrivati in un lampo all'imboccatura, io davanti e lui dietro, cominciammo ad addentrarci nello stretto tunnel. Era tutto buio e non sapevamo nemmeno se sarebbe sbucato da qualche parte o se sarebbe terminato improvvisamente. Avanzavo cautamente, al buio, piegato in avanti per non sbattere la testa nell'invisibile soffitto, posando lentamente un piede davanti all'altro; tenevo la mano destra tesa davanti al viso per evitare di sbattere il naso in qualche ostacolo improvviso mentre la sinistra la allungavo di lato a sfiorare la sconosciuta parete di quel misterioso budello che si addentrava nelle viscere della terra. Che emozione! Cha scariche di adrenalina! Avevo deciso di non usare la candela preferendo avere le mani libere, e così procedevo alzando i piedi senza sapere dove ero né verso dove andavo; Giuseppe mi seguiva a brevissima distanza senza dir niente: l'emozione era così forte che non potevamo nemmeno parlare. Ragazzi, a ripensarci ora, e s'era incoscienti forte! Dopo qualche metro sentii che la galleria si faceva meno bassa permettendomi di avanzare a schiena dritta. Ancora qualche metro e poi sentii che c'era una salita. Tendendo le mani ora a sinistra ora a destra per evitare di perdere contatto con le pareti mi resi conto che la strada ora andava in salita. "Robe, torniamo indietro!" mi fece Giuseppe. Il buio ora era totale; avevamo percorso più di trenta metri senza sapere dove eravamo e dove andavamo, ma la voglia di proseguire era ormai irrefrenabile. Giunto su quella che giudicai essere la sommità della breve salita mi accorsi che ora il tunnel ora scendeva. Ancora pochi passi fatti con estrema cautela e vidi un chiarore davanti a me. Non ci credevo. "Ci siamo!" dissi al mio amico. Ancora qualche metro e sbucammo all'aperto. Ci trovammo in un ambiente strettissimo, sbarrato, davanti a noi da una parete in muratura chiusa da una porticina di legno. Sulla destra, in alto, una grata da dietro la quale si sentiva parlottare. Senza quasi respirare per paura di essere scoperto, mi issai fino alla grata. Detti uno sguardo al di là dove vidi due o tre monache che parlavano tra di loro. Erano i loro appartamenti; avevamo fatto il giro della chiesa. Provai ad aprire la porticina di legno ma era irrimediabilmente chiusa. Tornammo indietro fieri ed eccitati per quella avventura. Ero contento per aver dimostrato a me stesso di aver avuto tutto quel coraggio e nello stesso tempo ero deluso per non aver saputo dove portava la porticina.
Il giorno dopo non mi feci scappare l'occasione di raccontare a tutti i miei amici la mia avventura, arricchita di tutti i particolari (a dire il vero anche più di tutti; molti di più). 
"La mano della morta" al cinema
Bisogna considerare che quello era il tempo in cui andavano di moda certi filmoni gotici, pieni di inquietanti atmosfere e di suspense dove giovani donne sfortunate incappavano in mariti avidi o psicopatici che si ingegnavano per somministrare alle sventurate le più orrende sevizie; penso a titoli come "La casa sulla scogliera", "Rebecca", "Dietro la porta chiusa" e altri dello stesso genere; per quanto riguarda la letteratura (a quei tempi leggevano tutti, mica come oggi) spopolavano i serial di Eugène Sue e i romanzi di Hugo e Dumas pieni di misteri e di orribili delitti e tutti conoscevano poi certi classici nazionalpopolari come "La cieca di Sorrento", "La muta di Portici", "Le due orfanelle", "La sepolta viva" o "La mano della morta".
Proprio quest'ultimo titolo mi ispirò. Cominciai a fare congetture sullo scopo del misterioso tunnel e a poco a poco le mie fantasticherie fecero presa sulle menti dei miei amici.
Un tunnel nascosto... un passaggio segreto... nei pressi di una chiesa... vicino ad un convento... Ero certo, dissi, che qui ci trovavamo di fronte ad un mistero. Probabilmente anticamente il passaggio era servito alle monache di clausura per poter uscire senza esser notate, forse qualcuna di esse era rimasta vittima di un amore sacrilego e profano: nessun dubbio che in questo caso, la sventurata, come coloro che incappavano nello stesso genere di misfatto, sarebbe stata atrocemente punita, probabilmente murata viva proprio nelle pareti di quella caverna.
D'accordo, logica ce n'era poca (e fantasia tanta) in questi discorsi, ma ci piaceva immaginare, lasciar volare la mente; volevamo sognare una realtà avventurosa che trascendesse le piccole miserie che, a quei tempi, tutti dovevamo in qualche misura sopportare.
Morale della favola: il giorno dopo io e una decina di ragazzi eravamo pronti ad una esplorazione approfondita del cunicolo sotterraneo.
Questa volta ognuno di noi aveva una torcia e qualcuno si era munito anche di qualche robusto paletto di legno caso mai ci si fosse imbattuti in qualche arrabbiatissimo spirito di morto. Saltiamo al di là del muro, percorriamo lo stretto passaggio fino all'imbocco del tunnel, e poi, in fila indiana, cominciamo la nostra spedizione. Questa volta andavo più speditamente agevolato dalla fioca luce della torcia che avevo con me e dal fatto di essere ormai un veterano di quel luogo; dietro a me seguiva Fabio il Laini e via via tutti gli altri. Oddìo, di suspense ce n'era pochina; man mano che procedevamo quel tunnel si svelava per quello che realmente era: un passaggio stretto, basso, ma tutto sommato abbastanza agevole, creato con tutta probabilità per facilitare i lavori, di costruzione prima e di manutenzione poi, della chiesa. Urgeva qualche idea per non buttare al vento quella che da avventura da ricordare rischiava di trasformarsi in una passeggiata collettiva abbastanza insensata... l'occasione si presentò quando, poco prima della piccola salita che si trovava circa a metà della caverna, Fabio intravide qualcosa di strano nella parete di mattoni, sulla sinistra. Alla fioca luce della torcia risultò che c'era una apertura nel muro; sembrava fonda e larga poco più di un pugno. "Fammi vedere cose c'è, là dentro" dissi, cercando di far penetrare la luce della torcia più a fondo che potevo. Niente; il buco era fondo una trentina di centimetri ed era vuoto. "Ma che c'è laggiù in fondo?" chiese Fabio che aveva visto qualcosa di indefinito che appariva scura e tentacolare. La luce non illuminava sufficientemente così gli chiesi di allungare la mano per cercar di capire di cosa si trattasse ma proprio in quello stesso istante un'idea geniale mi si affacciò alla mente. Spinsi con forza dentro quel pertugio il braccio di Fabio fino a fargli toccare il fondo e contemporaneamente mi misi ad urlare a gran voce "E' una mano! La mano della morta!". Urla disperate, torce che si spengono, Fabio che schizza indietro, poi  scappa urlando, tutti che tornano sui loro passi e fuggono più presto che possono nel buio più pesto sbattendo teste, braccia e gambe nelle pareti sempre più strette.
In un attimo siamo tutti fuori dal cunicolo, in due secondi si fa a ritroso la stradina, si scavalca il muro gettandosi quasi di sotto, poi si corre via a perdifiato e ci si ritrova finalmente all'Incrociata, ammaccati, polverosi, ansimanti. Che avventura, ragazzi! Avevamo avuto la nostra grande giornata! La mano della morta non ci aveva presi! Finalmente anche noi avevamo qualcosa da raccontare!
E quello che era accaduto doveva proprio averci colpito perché ci se ne ricorda (e si racconta) anche oggi.

 
Quelli dell'Incrociata © 2008