mercoledì 26 ottobre 2011

Lèssico fontebrandino - Offese-

Nonostante a Siena ci si vanti (e a ragione) di esser nella città dove si parla il miglior italiano d'Italia (Siena è, si dice, "la madre lingua italiana") c'è da dire che ai miei tempi nei dintorni dell'Incrociata (oggi non so, dato l'imbarbarimento lessicale dovuto all'orrendo impatto globalizzante multimediatico e multietnico che imperversa fagocitando ogni diversità), anche se l'italiano fontebrandino colà esercitato era di universale ed immediata comprensione, esistevano però alcuni modi di dire, alcune parole autoctone e certe scorciatoie dialettiche che difficilmente sarebbero state comprese dai "forestieri" che, attirati dai pittoreschi scorci o da una visita al Santuario di Santa Caterina, si fossero avventurati tra quelle viuzze e quei vicoli ocaioli che costituivano il nostro regno indiscusso, un regno dove si faceva a "modo nostro" in tutto, anche nel parlare, e se ne andava fieri.
Prendiamo le offese. Noi non si diceva quasi mai "scemo" e, meno che mai, "grullo" (ridicolo e criticatissimo termine fiorentinese). Tolleravamo l'italianissimo e perentorio "imbecille" che andava bene per certi motivi in cui l'offesa doveva essere particolarmente "forte" ed incisiva, mentre "cretino" e "stupido", benché non disdegnati (specialmente nelle poche famiglie benestanti), erano considerati, e a ragione, portatori di un'offensività moscia, poco incisiva, da usarsi, scuotendo il capo, per certe mancanze veniali, sciocchezze o poco più.
Le vere offese fontebrandine erano altre, tante, belle e varie e venivano usate in ogni occasione di lite o disaccordo a dimostrare la nostra disapprovazione per un fatto, una azione, una frase o un comportamento che ritenevamo degno di censura e riprovazione pubblica (le nostre offese erano sempre rivolte al destinatario davanti a tutti e gridando, per di più).
Si partiva dal blando "strullo", una specie di incompleto sinonimo dell'altro usatissimo (ma non autoctono) "bischero", che veniva utile per definire colui che aveva compiuto un'azione ridicola o ingenua o sbagliata platealmente e comunque fallimentare. Devo dire che "strullo" più che rimarcare l'azione, qualificava la persona. Dopo due o tre volte che uno aveva fatto qualche strullata ecco che diventava lui, personalmente e indelebilmente, uno "strullo" o anche, benevolmente, uno "strullone".
"Ma che gli vòi dì a quello. O un lo sai che è strullo?" si diceva di uno dedito alle "strullate", e si evitava di dargli qualche incarico importante da portare a termine come, ad esempio, fare una commissione o avvisare qualcuno di presentarsi ad un certo appuntamento, pena, se quello ne combinava una delle sue, di sentirsi dire: "Ma che sei matto a dare l'incarico a quello lì. Lo sanno tutti che è strullo!".
Per altre mancanze un pò più gravi (ma sempre in riferimento a mancanza di prontezza o a lentezza di riflessi) si poteva usare, a scelta, "rimbambito" o "rincoglionito". Mentre il primo termine si attagliava a perfezione a colui che si dimostrasse particolarmente duro di comprendonio o restasse in immobilità estatica laddove ci sarebbe stato invece bisogno di decisione e di spirito di iniziativa, il più severo "rincoglionito" era usato più che altro in ambito familiare attagliandosi a perfezione al nonno che a tavola aveva fatto cadere per la terza volta in un minuto il tovagliolo o, detto dalla moglie, al marito reo di tornare a casa senza essersi ricordato di prendere le "paste" il giorno in cui a pranzo c'erano i parenti (di lei). Devo anche notare che "rincoglionito" era per lo più pronunciato con un tono severo ed una espressione di profondo disgusto nello sguardo come a suscitare, nel destinatario, un senso di estrema e irrimediabile vergogna come ad esempio nel caso in cui, di fronte ad una dimenticanza del marito, la moglie lo apostrofasse così: "Oh! Io 'un lo sò più che devo fà. E' un pò di tempo che sei proprio rincoglionito". Di fronte a tale offesa al poveretto non restava da far altro che evitare di rispondere ed uscire velocemente di casa per andare a cercar conforto dal vinaio.
Ma l'epiteto offensivo più originale che risuonasse tra le piagge ed i vicoli di Fontebranda, quello più usato da grandi e piccini, maschi e femmine, giovani e vecchi, era senza alcun dubbio il bellissimo "sciabordìto" (a mio avviso la più creativa fra le offese non solo di Fontebranda, ma di Siena tutta). 
Sciabordìto era colui che faceva uno scherzo stupido o pericoloso; colui che non sapeva controllarsi ed esponeva al ridicolo un amico; colui che, cercando di far lo spiritoso, allungava le mani a sproposito su una ragazza; colui che compiva un atto illogicamente volgare e che, per sembrare spiritoso, risultava poi offensivo. Sembra che il termine derivi dal verbo "sciabordare" a voler indicare una testa troppo ampia per il cervello che contiene, al punto che questo ci sta troppo largo ovvero "ci sciabòrda".
Naturalmente, come per tutte le altre, anche questa offesa richiedeva il suo modo particolare per esser proferita all'indirizzo del destinatario. Si poteva semplicemente dire a voce alta: "O sciabordìto!!" (indirizzando lo sguardo al destinatario), oppure: "Che popò di sciabordìto!" (guardando i presenti a sollecitarne appoggio e solidarietà). In casi più gravi si poteva usare, scuotendo lentamente il capo, con le labbra strette e a voce bassa come a dimostrare l'inutilità di una qualsiasi forma di correzione o di perdono e indirizzandosi al destinatario, un: "Che vòi che ti dica: sei proprio uno sciabordìto".
Insomma si può dire che a quei tempi (tempi difficili) se c'era una cosa che non ci mancava, in Fontebranda, era la varietà di offese che avevamo a disposizione. E noi se ne approfittava.

giovedì 6 ottobre 2011

GIOCHI DA STRADA - I tappini

Divisi tra la cronica mancanza di soldi disponibili (ce n'erano pochi per tirare avanti in famiglia, figuriamoci per darli a noi!) e la necessità (ché tale è per gli adolescenti) di trovare un modo divertente per poter giocare in compagnia, ecco che dalle parti dell'Incrociata la creatività dei giovani fontebrandini non cessava di sperimentare sempre nuovi giochi la maggior parte dei quali, rivelandosi un flop nel gradimento della benedetta masnada stradaiola, veniva abbandonato dopo pochi giorni di insoddisfacenti sperimentazioni.
Il fatto è che il gioco che volevamo (anche senza saperlo esprimere) era un tipo di gioco tutto particolare: era insomma un gioco che doveva avere alcune caratteristiche.
1: non doveva (ovviamente) costare niente;
2: doveva coinvolgere il maggior numero di ragazzi possibile (nell'Oca ci piace socializzare);
3: doveva svolgersi all'aperto, possibilmente in un ambiente facilmente controllabile dalle mamme, sempre preoccupate di sapere dove ci trovavamo;
5: doveva essere un gioco agonistico senza essere pericoloso, uno in cui si poteva vincere o perdere e ci si poteva confrontare con gli altri.
Passata l'epoca dei giochi guerreschi (pistole, spade, archibugi e cerbottane) dove, tutto sommato, la strategia di base era semplice e ripetitiva, e prima che le nostre esistenze fossero prese dalla passione per il pallone, un eterno ringraziamento ed una menzione d'onore va senza dubbio a colui che per primo introdusse presso i ragazzi di Siena in generale, e di Fontebranda in particolare, la nobile arte dei tappini.
Tappini
Il tappino (in italiano: tappo a corona) è quella specie di coroncina metallica, larga su per giù come una moneta da 2 euro (26 mm. ad esser precisi) e alta poco meno di mezzo centimetro che serve a chiudere ermeticamente le bottiglie delle bibite. All'epoca (si parla della fine degli anni Quaranta) cominciava ad esser di moda a Siena, specie la domenica pomeriggio, arrivare con la famiglia fino alla Lizza e poi sedersi ad uno dei tavolini del "Leccio" per sorseggiare una bibita. La più richiesta era l'aranciata, ma c'era anche la classica gazzosa, il chinotto e  la birra anche se quest'ultima stentava ad affermarsi in una città dove il predominio etilico tra i ceti popolari e contradaioli appartiene da sempre, di diritto, al "gotto di rosso" ed al bruschello. La scena era sempre la stessa. Uno si sedeva al tavolino, faceva la propria ordinazione e se aveva chiesto, mettiamo, un'aranciata, ecco che dopo poco arrivava il cameriere con un vassoio dove c'era il conto, la bottiglietta ed un bicchiere. Un gesto rapido, da esperto; la bottiglietta veniva stappata (clok!), l'aranciata scendeva schiumando nel bicchiere ed il cameriere, ringraziato, si allontanava. 
Il tappino cadeva a terra.
Di tutta l'operazione questa era quella che più mi interessava: il tappino era lì, ai miei piedi! Bastava chinarsi, raccoglierlo e metterselo in tasca. Naturalmente una escursione al "Leccio" non poteva esaurirsi con la cattura di "un" tappino (e oltretutto di mia proprietà data la sua appartenenza alla "mia" aranciata) pertanto, dopo la consumazione restavo nei paraggi a raccattare tutti i tappini che trovavo tra i tavolini fino a che, con le tasche piene zeppe, potevo tornarmene a casa.
Con i tappini si potevano fare due diversi tipi di gioco: a "pista" o "a bollassi", ma in ogni caso essi dovevano essere preparati adeguatamente. Ebbene, proprio l'arte della preparazione dei tappini divenne una delle mie specializzazioni più apprezzate. Dopotutto non era difficile; innanzitutto (ecco la parte più delicata) si dovevano togliere al tappino le ammaccature e le piegature  subite durante la stappatura. Per questo bastava posizionarlo con la parte interna verso l'alto, appoggiarlo su una superficie dura e piana, inserirvi una moneta da 10 lire o un "diecione" (una vecchia moneta fuori corso) e dargli alcune piccole martellate in modo che la pressione a poco a poco raddrizzasse la superficie sottostante. Una volta che questa era diventata sufficientemente piatta il tappino veniva bagnato e sfregato più e più volte sulla pietra serena della strada fino a che raggiungeva la desiderata scorrevolezza.
Tappino: a destra la parte interna da personalizzare con i colori delle squadre di cislismo.
  
Primo gioco con i tappini: Pista.
Per giocare a pista ci volevano due o più giocatori, ognuno dei quali munito di tappino, un pezzetto di gesso (o di carbone, solo per ripiego) e un posto abbastanza largo e tranquillo dove giocare: la strada. In quegli anni per le strade dell'Incrociata (la Galluzza e Via Santa Caterina) non passavano né auto né motori, pressoché inesistenti, e i passanti (tutte persone della Contrada) non trovavano niente da ridire se disegnavamo la nostra pista (che rappresentava né più né meno il Giro d'Italia) proprio nel bel mezzo della strada. La pista (un anello oblungo, irregolare), tracciata con il gesso o, in mancanza di questo, col carbone che allora non mancava, doveva avere alcuni requisiti per piacerci ancora di più. Innanzitutto doveva essere piena di curve e poi la sua larghezza doveva andare dai 20 ai 30 centimetri anche se ogni tanto era bene restringerla fino a non più di 10 per renderla più difficoltosa; una linea che la tagliava a metà costituiva la Partenza e il Traguardo. Il gioco consisteva nello spingere avanti a turno il proprio tappino  con un colpo sferrato con un dito (un "biscotto") senza uscire dai bordi tracciati col gesso che delimitavano la pista. Chi usciva, doveva riportare il proprio tappino da dove l'aveva spinto (perdendo così un turno); chi "tagliava" (caso che si verificava se il tappino usciva dai bordi ma poi vi rientrava  fermandosi dentro la pista) doveva ripetere il tiro: queste erano le regole principali. C'era anche la possibilità di "raddrizzare" le curve che consisteva nello spostare il proprio tappino, prima di effettuare il tiro, lungo l'asse longitudinale ai bordi della pista. Chi per primo completava il giro della pista aveva vinto "la tappa" (ogni giro di pista rappresentava una tappa del Giro d'Italia; il ciclismo era senza alcun dubbio lo sport più seguito in quegli anni) e tenevamo una classifica per determinare chi, dopo alcune tappe avrebbe potuto esser dichiarato vincitore del nostro personale Giro d'Italia. Il gioco fu ancor più perfezionato con la personalizzazione dei tappini. La Gazzetta dello Sport, il giorno precedente alla partenza del Giro stampava in una pagina i nomi di tutti i partecipanti suddivisi in squadre, squadre delle quali erano riportati i colori sociali. Ebbene io passavo giornate intere a disegnare su un cartoncino dei cerchi delle dimensioni di un tappino che poi completavo con i colori della squadra e il nome del corridore. Poi ritagliavo i cerchi di cartoncino così preparati e li inserivo nell'interno dei tappini (ne avevo più di cento). Mi ricordo che un anno avevo tanti tappini quanti erano i corridori che partecipavano al "vero" Giro d'Italia, e tutti con i nomi e i colori giusti delle loro maglie.
Prima di cominciare il Giro d'Italia ognuno sceglieva di "essere" un certo corridore ed io gli fornivo il tappino personalizzato.
Il gioco della pista fatto con i tappini fu per almeno un anno la vera passione di tutti i ragazzi dell'Incrociata. In certi pomeriggi fra Via della Galluzza, Via Santa Caterina e vicoli adiacenti c'erano quattro piste con almeno venti ragazzi accovacciati accanto al proprio tappino in attesa di potergli dare il biscotto vincente. Naturalmente ci si conciava come bastoni da pollaio (sempre con i ginocchi in terra, sempre a sdrusciarci sulla pietra serena...) e le mamme non gradivano.. poi c'era il baccano infernale (anche se a noi non faceva nessun effetto) che saliva dalle strade dove ci si accalcava intorno alle piste ma tutto sommato si trattava di inconvenienti saltuari. Vuoi mettere la soddisfazione di vincere una tappa? E quella di poter trionfare al Giro d'Italia con il proprio tappino col nome del campione preferito? Impagabile.
Poi, (come tutte le cose) passò. Prese campo il secondo gioco con i tappini; un gioco questo che si basava non solo sulla abilità tecnica, ma anche e soprattutto sulla tattica e la strategia: a "bollassi".


Secondo gioco con i tappini: a "bollassi".
Per giocare a "bollassi" (o meglio: a bollarsi che sarebbe a dire a scontrarsi, a incocciarsi, a colpirsi) non ci vuole nemmeno la pista; bastano due giocatori (ognuno con il proprio tappino) e uno spazio sufficientemente largo per effettuare i tiri. Il primo giocatore piazza il proprio tappino a terra, in un punto a sua scelta; l'altro giocatore fa altrettanto.
In questo gioco anche la tecnica è importante; ad esempio nel modo in cui si sferra il "biscotto". Mentre a "pista" si spingevano i tappini con dei biscottini calibrati, precisi, mirati, tirati prevalentemente con l'indice che faceva leva col pollice, per giocare a bollassi era indispensabile saper tirare "biscotti" diversi a seconda delle situazioni. Per effettuare un tiro potente, da lontano, era meglio affidarsi ad un potente biscotto sferrato con il medio che faceva leva sul pollice, mentre per certi piccolissimi spostamenti o per far uscire il proprio tappino da una posizione precaria (vicino ad un muro, dentro una buca..) era meglio tentare con un biscottino tirato con il pollice  a contrasto con l'indice. (A forza di tirar biscotti quasi tutti noi ragazzi avevamo un callo alla base dell'unghia del dito indice o del medio; per quanto mi riguarda ricordo che ero riuscito a sviluppare un tipo di biscotto così potente che con un tiro riuscivo a far percorrere al tappino tutta la lunghezza della Piazzetta del Portico dei Comuni!)
Ora il gioco vero e proprio (che consiste nel colpire col proprio tappino, o "bollare", quello dell'altro) può cominciare e ogni giocatore, a turno, dà un biscotto al proprio tappino spostandolo da dove si trova. Se il tappino dell'avversario "si vede" (non ci sono cioè ostacoli che impediscano un tiro diretto) si può, calcolando la distanza, tirare direttamente per colpirlo (ed in tal caso risuonava il grido del vincitore: "Bollato!") ma calibrando la velocità in modo che, in caso di bersaglio mancato, il nostro tappino non resti in una posizione troppo favorevole al successivo tiro dell'avversario. Se invece non è possibile tirare per colpirlo (perché è nascosto dietro ad un ostacolo o perché è troppo lontano) allora si effettuano tiri di aggiustamento, o di avvicinamento o di copertura.... insomma quando parlo di strategia c'è una ragione. A "bollassi" era un giochino niente affatto banale; il primo gioco "adulto", un misto tra il biliardo e uno di quei giochi moderni che si chiamano "di ruolo".
Essendo un pò più grandi di quando giocavamo a pista, non ci accontentavamo più della gloria: in caso di vittoria il perdente era tenuto a dare qualcosa al vincitore. Ricordo che noi giocavamo di "giornalini" (i giornali a fumetti erano la più grande fonte di letteratura estrascolastica per i ragazzi di quei tempi e non c'era ragazzo che non avesse in casa pile di "Pecos Bill", "Topolino", "Tiramolla", "Il vittorioso" e dell'Intrepido, per dire dei più diffusi); personalmente ero diventato talmente bravo a "bollassi" che in breve tempo riuscii a vincere tanti di quei giornalini (la maggior parte dei quali al Bozzi, tanto per non far nomi) che non sapevo più dove metterli.
A "bollassi" era e rimane (anche se nessuno ormai lo gioca più) uno dei giochi più belli e appassionanti che esistano.
E oggi i ragazzi dicono che non sanno come fare a passare il tempo!
Un tappino di Aranciata ROVETA








 
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