Nonostante a Siena ci si vanti (e a ragione) di esser nella città dove si parla il miglior italiano d'Italia (Siena è, si dice, "la madre lingua italiana") c'è da dire che ai miei tempi nei dintorni dell'Incrociata (oggi non so, dato l'imbarbarimento lessicale dovuto all'orrendo impatto globalizzante multimediatico e multietnico che imperversa fagocitando ogni diversità), anche se l'italiano fontebrandino colà esercitato era di universale ed immediata comprensione, esistevano però alcuni modi di dire, alcune parole autoctone e certe scorciatoie dialettiche che difficilmente sarebbero state comprese dai "forestieri" che, attirati dai pittoreschi scorci o da una visita al Santuario di Santa Caterina, si fossero avventurati tra quelle viuzze e quei vicoli ocaioli che costituivano il nostro regno indiscusso, un regno dove si faceva a "modo nostro" in tutto, anche nel parlare, e se ne andava fieri.
Prendiamo le offese. Noi non si diceva quasi mai "scemo" e, meno che mai, "grullo" (ridicolo e criticatissimo termine fiorentinese). Tolleravamo l'italianissimo e perentorio "imbecille" che andava bene per certi motivi in cui l'offesa doveva essere particolarmente "forte" ed incisiva, mentre "cretino" e "stupido", benché non disdegnati (specialmente nelle poche famiglie benestanti), erano considerati, e a ragione, portatori di un'offensività moscia, poco incisiva, da usarsi, scuotendo il capo, per certe mancanze veniali, sciocchezze o poco più.
Le vere offese fontebrandine erano altre, tante, belle e varie e venivano usate in ogni occasione di lite o disaccordo a dimostrare la nostra disapprovazione per un fatto, una azione, una frase o un comportamento che ritenevamo degno di censura e riprovazione pubblica (le nostre offese erano sempre rivolte al destinatario davanti a tutti e gridando, per di più).
Si partiva dal blando "strullo", una specie di incompleto sinonimo dell'altro usatissimo (ma non autoctono) "bischero", che veniva utile per definire colui che aveva compiuto un'azione ridicola o ingenua o sbagliata platealmente e comunque fallimentare. Devo dire che "strullo" più che rimarcare l'azione, qualificava la persona. Dopo due o tre volte che uno aveva fatto qualche strullata ecco che diventava lui, personalmente e indelebilmente, uno "strullo" o anche, benevolmente, uno "strullone".
"Ma che gli vòi dì a quello. O un lo sai che è strullo?" si diceva di uno dedito alle "strullate", e si evitava di dargli qualche incarico importante da portare a termine come, ad esempio, fare una commissione o avvisare qualcuno di presentarsi ad un certo appuntamento, pena, se quello ne combinava una delle sue, di sentirsi dire: "Ma che sei matto a dare l'incarico a quello lì. Lo sanno tutti che è strullo!".
Per altre mancanze un pò più gravi (ma sempre in riferimento a mancanza di prontezza o a lentezza di riflessi) si poteva usare, a scelta, "rimbambito" o "rincoglionito". Mentre il primo termine si attagliava a perfezione a colui che si dimostrasse particolarmente duro di comprendonio o restasse in immobilità estatica laddove ci sarebbe stato invece bisogno di decisione e di spirito di iniziativa, il più severo "rincoglionito" era usato più che altro in ambito familiare attagliandosi a perfezione al nonno che a tavola aveva fatto cadere per la terza volta in un minuto il tovagliolo o, detto dalla moglie, al marito reo di tornare a casa senza essersi ricordato di prendere le "paste" il giorno in cui a pranzo c'erano i parenti (di lei). Devo anche notare che "rincoglionito" era per lo più pronunciato con un tono severo ed una espressione di profondo disgusto nello sguardo come a suscitare, nel destinatario, un senso di estrema e irrimediabile vergogna come ad esempio nel caso in cui, di fronte ad una dimenticanza del marito, la moglie lo apostrofasse così: "Oh! Io 'un lo sò più che devo fà. E' un pò di tempo che sei proprio rincoglionito". Di fronte a tale offesa al poveretto non restava da far altro che evitare di rispondere ed uscire velocemente di casa per andare a cercar conforto dal vinaio.
Ma l'epiteto offensivo più originale che risuonasse tra le piagge ed i vicoli di Fontebranda, quello più usato da grandi e piccini, maschi e femmine, giovani e vecchi, era senza alcun dubbio il bellissimo "sciabordìto" (a mio avviso la più creativa fra le offese non solo di Fontebranda, ma di Siena tutta).
Sciabordìto era colui che faceva uno scherzo stupido o pericoloso; colui che non sapeva controllarsi ed esponeva al ridicolo un amico; colui che, cercando di far lo spiritoso, allungava le mani a sproposito su una ragazza; colui che compiva un atto illogicamente volgare e che, per sembrare spiritoso, risultava poi offensivo. Sembra che il termine derivi dal verbo "sciabordare" a voler indicare una testa troppo ampia per il cervello che contiene, al punto che questo ci sta troppo largo ovvero "ci sciabòrda".
Naturalmente, come per tutte le altre, anche questa offesa richiedeva il suo modo particolare per esser proferita all'indirizzo del destinatario. Si poteva semplicemente dire a voce alta: "O sciabordìto!!" (indirizzando lo sguardo al destinatario), oppure: "Che popò di sciabordìto!" (guardando i presenti a sollecitarne appoggio e solidarietà). In casi più gravi si poteva usare, scuotendo lentamente il capo, con le labbra strette e a voce bassa come a dimostrare l'inutilità di una qualsiasi forma di correzione o di perdono e indirizzandosi al destinatario, un: "Che vòi che ti dica: sei proprio uno sciabordìto".
Insomma si può dire che a quei tempi (tempi difficili) se c'era una cosa che non ci mancava, in Fontebranda, era la varietà di offese che avevamo a disposizione. E noi se ne approfittava.
Prendiamo le offese. Noi non si diceva quasi mai "scemo" e, meno che mai, "grullo" (ridicolo e criticatissimo termine fiorentinese). Tolleravamo l'italianissimo e perentorio "imbecille" che andava bene per certi motivi in cui l'offesa doveva essere particolarmente "forte" ed incisiva, mentre "cretino" e "stupido", benché non disdegnati (specialmente nelle poche famiglie benestanti), erano considerati, e a ragione, portatori di un'offensività moscia, poco incisiva, da usarsi, scuotendo il capo, per certe mancanze veniali, sciocchezze o poco più.
Le vere offese fontebrandine erano altre, tante, belle e varie e venivano usate in ogni occasione di lite o disaccordo a dimostrare la nostra disapprovazione per un fatto, una azione, una frase o un comportamento che ritenevamo degno di censura e riprovazione pubblica (le nostre offese erano sempre rivolte al destinatario davanti a tutti e gridando, per di più).
Si partiva dal blando "strullo", una specie di incompleto sinonimo dell'altro usatissimo (ma non autoctono) "bischero", che veniva utile per definire colui che aveva compiuto un'azione ridicola o ingenua o sbagliata platealmente e comunque fallimentare. Devo dire che "strullo" più che rimarcare l'azione, qualificava la persona. Dopo due o tre volte che uno aveva fatto qualche strullata ecco che diventava lui, personalmente e indelebilmente, uno "strullo" o anche, benevolmente, uno "strullone".
"Ma che gli vòi dì a quello. O un lo sai che è strullo?" si diceva di uno dedito alle "strullate", e si evitava di dargli qualche incarico importante da portare a termine come, ad esempio, fare una commissione o avvisare qualcuno di presentarsi ad un certo appuntamento, pena, se quello ne combinava una delle sue, di sentirsi dire: "Ma che sei matto a dare l'incarico a quello lì. Lo sanno tutti che è strullo!".
Per altre mancanze un pò più gravi (ma sempre in riferimento a mancanza di prontezza o a lentezza di riflessi) si poteva usare, a scelta, "rimbambito" o "rincoglionito". Mentre il primo termine si attagliava a perfezione a colui che si dimostrasse particolarmente duro di comprendonio o restasse in immobilità estatica laddove ci sarebbe stato invece bisogno di decisione e di spirito di iniziativa, il più severo "rincoglionito" era usato più che altro in ambito familiare attagliandosi a perfezione al nonno che a tavola aveva fatto cadere per la terza volta in un minuto il tovagliolo o, detto dalla moglie, al marito reo di tornare a casa senza essersi ricordato di prendere le "paste" il giorno in cui a pranzo c'erano i parenti (di lei). Devo anche notare che "rincoglionito" era per lo più pronunciato con un tono severo ed una espressione di profondo disgusto nello sguardo come a suscitare, nel destinatario, un senso di estrema e irrimediabile vergogna come ad esempio nel caso in cui, di fronte ad una dimenticanza del marito, la moglie lo apostrofasse così: "Oh! Io 'un lo sò più che devo fà. E' un pò di tempo che sei proprio rincoglionito". Di fronte a tale offesa al poveretto non restava da far altro che evitare di rispondere ed uscire velocemente di casa per andare a cercar conforto dal vinaio.
Ma l'epiteto offensivo più originale che risuonasse tra le piagge ed i vicoli di Fontebranda, quello più usato da grandi e piccini, maschi e femmine, giovani e vecchi, era senza alcun dubbio il bellissimo "sciabordìto" (a mio avviso la più creativa fra le offese non solo di Fontebranda, ma di Siena tutta).
Sciabordìto era colui che faceva uno scherzo stupido o pericoloso; colui che non sapeva controllarsi ed esponeva al ridicolo un amico; colui che, cercando di far lo spiritoso, allungava le mani a sproposito su una ragazza; colui che compiva un atto illogicamente volgare e che, per sembrare spiritoso, risultava poi offensivo. Sembra che il termine derivi dal verbo "sciabordare" a voler indicare una testa troppo ampia per il cervello che contiene, al punto che questo ci sta troppo largo ovvero "ci sciabòrda".
Naturalmente, come per tutte le altre, anche questa offesa richiedeva il suo modo particolare per esser proferita all'indirizzo del destinatario. Si poteva semplicemente dire a voce alta: "O sciabordìto!!" (indirizzando lo sguardo al destinatario), oppure: "Che popò di sciabordìto!" (guardando i presenti a sollecitarne appoggio e solidarietà). In casi più gravi si poteva usare, scuotendo lentamente il capo, con le labbra strette e a voce bassa come a dimostrare l'inutilità di una qualsiasi forma di correzione o di perdono e indirizzandosi al destinatario, un: "Che vòi che ti dica: sei proprio uno sciabordìto".
Insomma si può dire che a quei tempi (tempi difficili) se c'era una cosa che non ci mancava, in Fontebranda, era la varietà di offese che avevamo a disposizione. E noi se ne approfittava.
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