domenica 19 agosto 2012

16 Agosto 2012

Anche se l'Oca non corre, quando è Palio è Palio. Così come faccio a non andare in Piazza Indipendenza ad aspettare l'ora della Mossa insieme agli altri ocaioli, tutti amici da una vita e tutti riuniti qui, per l'evento imperdibile, richiamati dall'amore per la nostra grande Contrada? Arrivo facendomi largo a stento tra l'immensa folla che satura letteralmente le strade principali dell'antica città toscana e quando arrivo nella piazza ecco che la trovo letteralmente gremita di ocaioli vecchi e giovani. Tra turisti accaldati che passano con la solita bottiglia d'acqua in una mano, procacissime giovanette discinte che in quest'occasione riescono a suscitare solo  una veloce (ma competente) occhiata di compiacimento, tassisti stremati, contradaioli stranieri fuori zona d'appartenenza e una rappresentanza di quasi tutte le comunità multietniche esistenti al mondo ecco che mi dirigo verso uno dei pochi gruppetti di coetanei che riesco ad adocchiare.
C'è Carmelo, Fabio il Laini, Giuliano e via via si aggiungono per qualche minuto ad ascoltare molti altri. Argomento principe è, ovviamente, il Palio, ma non si trascurano lunghe incursioni in quella malinconica ma piacevolissima disciplina dialettica (che tanto seduce i senesi anziani) detta "Dei bei tempi andati".
Sia chiaro, di questo Palio, vinca chi vuole, non ce ne può fregar di meno... quello che ci affascina è poter far rivivere i ricordi comuni, quelli che solo dal molteplice scambio dialettico di esperienze e sensazioni con i coprotagonisti assumono agli occhi degli estatici ascoltatori che si sono avvicinati a noi, gli eletti, ad ascoltar le meravigliose avventure alle quali loro non hanno assistito, il crisma della verità assoluta, la Cronaca Autentica di una sconosciuta e ormai perduta Età dell'Oro.
Si chiedono notizie degli assenti e per ognuno di loro si rievocano esperienze condivise ormai trasformate, dalle troppe volte in cui sono state raccontate, in divertenti aneddoti, o in detti popolari, o in miti che il tempo, l'abitudine, l'assenza di critiche ed il generale apprezzamento hanno reso inattaccabili.
Certo, a guardar indietro con occhi consapevoli, la differenza rispetto ad adesso è stridente, lacerante, dolorosa.
Ma vi ricordate amici (se ce ne siete di meno giovani a legger queste quattro righe) come era la Contrada allora?
La Contrada era né più né meno che la nostra vita.
Il nostro tempo si divideva tra quello che passavamo in strada e quello in cui, assenti nostro malgrado per impegni familiari o scolastici, attendevamo solo l'ora per rituffarcisi.
La nostra strada (la Contrada è composta da molte strade, ma fra queste solo una era quella in cui ognuno di noi si sentiva "a casa sua") era la nostra casa, la Contrada era la nostra Patria, Siena era la nostra Nazione. Tutto quello che avveniva in una "nostra" famiglia, ad una "nostra" persona, gli accadimenti pubblici e privati che coinvolgevano un contradaiolo, arrivavano subito in strada dove venivano commentati e analizzati con la stessa compartecipazione che si riserva ad un parente, ad un amico del cuore.
Immemori della miseria nera che coinvolgeva e preoccupava la maggior parte delle nostre famiglie, nei pomeriggi estivi le strade della Contrada risuonavano delle grida assordanti dei ragazzi e dei "cittini" che si raggruppavano in base al sesso e all'età per dedicarsi ai giochi che usavano allora. Nelle strade di Fontebranda c'era sempre una trentina fra ragazzi e ragazze che si scalmanavano a giocare. Le bambine giocavano a "anintré, canarin fumé, la mariannanfà..." scagliando la palla contro il muro e cercando di riprenderla al volo dopo varie piroette; quelle più grandicelle si affannavano a saltare da una parte all'altra della strada giocando a "campana" (disegnata col gesso al centro della via); noi, i maschi, a volte divisi per strada di appartenenza (quelli della Galluzza da sé, quelli di Santa Caterina da sé) ci si accaniva in duelli pazzeschi con le cerbottane o le spade (di sambuco), si correva per arrivare al "salvo" a ringuattarello, ci si incaponiva nelle sfide a "tappini" (ogni dieci metri in ogni strada c'era una pista disegnata col gesso o col carbone per permettere di giocarci a "pista") o si giocava a "scaloncino" con le figurine (non c'era gradino di casa che non fosse occupato stabilmente da due ragazzi tutti impegnati e così presi dal gioco che non si sarebbero alzati per tutto l'oro del mondo e bisognava scavalcarli per poter entrare a casa). E non ho parlato dei giochi con la palla (palle autarchiche di ogni tipo e grandezza, la maggior parte delle quali fabbricate in un minuto con due fogli di giornale arrotolati strettamente e tenuti fermi con uno spago)....
Tutti i giochi avvenivano simultaneamente nelle strade che si riunivano all'Incrociata e sia quelli dei maschi che quelli delle femmine avevano l'allegra (per noi) caratteristica che i partecipanti gridavano tutti a voce altissima sì da dar vita, con le strade effervescenti di movimento e di rumore, ad una specie di girone dantesco in miniatura e riservato non tanto ai dannati (che erano semmai quelli che non sopportavano tanta frenesia e ci mandavano continuamente, inascoltati, al diavolo) ma a noi, angeli di contrada, appartenenti ad un tempo che credevamo felicemente immutabile...

Sono quasi le sette. Scendiamo per via Santa Caterina verso la Trieste dove seguiremo l'inutile corsa (giacché noi non si corre) in TV. Giro attorno uno sguardo smarrito e preoccupato, simile a quelli che gli sfollati di un terremoto danno alle loro case quando viene dato loro il permesso di tornarvi e le ritrovano danneggiate o distrutte.
Nessuno nelle strade. Qualche motorino lasciato qua e là. Da una finestra esce il suono di una musica interrotto da pazze risate sconsiderate. Su uno scalino una bottiglietta di birra abbandonata. E la gente? E i ragazzi? Dove sono tutti? 
Alla Trieste, davanti allo schermo televisivo le immagini della corsa cancellano per un pò le tristi considerazioni di prima; il Palio è sempre il Palio, entusiasmante, coinvolgente, ammaliante... ma non è "lo stesso" Palio di allora, su questo non c'è alcun dubbio. 
E Siena non è la stessa città di allora (penso) e nemmeno la mia contrada è più quella di allora... ma questo pensiero, che tutti noi della mia età condividiamo, lasciamolo restare dove sta.. nel profondo dei nostri cuori e delle nostri menti. Non evochiamolo, non diamogli voce. Il tempo passa noi malgrado e tutte le cose, anche le più belle, passano irrimediabilmente. Ringraziamo piuttosto Dio per averci concesso di vivere una stagione irripetibile della nostra vita.

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