(estratto da un Capitolo del mio libro, ancora inedito, sul Cinema)
Per tornare a quello che, almeno nelle intenzioni, dovrebbe essere il tema principale di questo libro, mi pare di poter dire che alcune delle mie prime esperienze cinematografiche sono proprio collegate a quello che è il più importante avvenimento collettivo della Contrada: la Festa Titolare Annuale. Ognuna delle contrade celebra infatti, una volta all’anno, una Festa Titolare, normalmente nei giorni in cui si onora il Santo Patrono (ogni Contrada ne ha uno); nel caso della mia Contrada la Festa si svolge nella prima metà del mese di Maggio, dura diversi giorni e coinvolge in maniera più o meno direttamente tutti gli abitanti del rione. In quei giorni si apparecchia e si cena in strada, tutti insieme; si organizzano giochi, lotterie, mostre di oggetti di carattere contradaiolo, si preparano e si vendono manufatti con i colori della Contrada e si ‘battezzano’ i bambini nati nell’anno; la Festa si conclude con un grande corteo in cui tutti i contradaioli sfilano per le vie della città al suono della banda cittadina, dietro le bandiere che sventolano al rullo dei tamburi.
Ebbene, proprio durante i giorni della Festa Titolare, quando ero ancora un bambino di cinque o sei anni, la Contrada organizzava, tra gli altri passatempi, anche una serata cinematografica; un unico spettacolo notturno per il quale veniva noleggiato un Cinema ambulante. Quella sera, dopo aver cenato in fretta e furia, tutti gli abitanti della Contrada scendevano in strada, le donne e gli anziani portandosi dietro una sedia, e si riunivano nella larga piazzetta del Santuario di Santa Caterina, lastricata di mattoni disposti a spina di pesce e circondata per due lati da un porticato retto da colonne di pietra serena; beh, bastavano pochi minuti per trasformarla in una improvvisata sala cinematografica a cielo aperto. Ci sistemavamo davanti al grande lenzuolo bianco secondo un ordine ben preciso; le donne e le persone anziane in prima fila sedute nelle seggiole portate da casa, noi bambini accosciati per terra davanti a loro proprio sotto lo schermo, gli uomini in piedi dietro ai ragazzi e ai lati della piazzetta. Dopo un periodo di tempo che ci sembrava insopportabilmente lungo, riempito dal chiacchiericcio dei presenti e dal frenetico andirivieni del cinematografaro indaffarato a mettere a punto gli ultimi dettagli, venivano finalmente spente le luci e subito da un camioncino (parcheggiato vicino al cancello d’ingresso alla piazzetta) che fungeva da sala di proiezione, partiva un raggio luminoso che illuminava l’instabile schermo steso tra due colonne; alcuni lunghi secondi per regolare il sonoro (voci: "'un si sente nienteee!"), centrare l’immagine ("Quadrooo!"), controllare che la messa a fuoco fosse perlomeno passabile ("E' sfocatooo!") ed ecco che le prime forme riconoscibili cominciavano a scorrere sullo schermo tra gli ultimi colpi di tosse del pubblico, mentre il brusio si smorzava e i ragazzi delle prime file che continuavano a parlare venivano redarguiti con perentori: ‘Sssssst!’, bèrci: ‘Ora basta!’ o, per i recidivi, anonimi ma convincenti scapaccioni.
Ricordo abbastanza bene quei primi film, a testimonianza di quanto sia persistente la memoria degli avvenimenti eccezionali (e nel 1947, il cinema lo era) nella mente dei bambini. Erano films a soggetto religioso (dopotutto la piazzetta che ci ospitava faceva parte del Santuario dove alloggiavano le suore cateriniane alle quali nessuno avrebbe voluto mancare di rispetto) due dei quali mi sono rimasti ben impressi nella memoria. Uno era ‘Cielo sulla palude’, un film sulla vita di Santa Maria Goretti. Il film si svolgeva in un ambiente rurale, credo nell’Agro Pontino, e, nonostante aspirasse al realismo, era tutto permeato da una strana atmosfera arcana e inquietante, che lasciava presagire anche a noi bambini, che pure non riuscivamo a comprenderne bene la trama, un senso di oscura incombente minaccia. Il soggetto del film era abbastanza scabroso per quegli anni (una ragazza adolescente che veniva uccisa per aver rifiutato le avances di un coetaneo) e verso la fine del film c’era una scena decisamente impressionante che suscitava domande di noi bambini alle quali le mamme cercavano di rispondere elusivamente e in maniera che non ammetteva repliche (‘Mamma, o perché quello l’ha ammazzata?’ - ‘Perché era cattivo’).
Una volta (e da allora per qualche anno di seguito) dettero un altro film che parlava della vita di Santa Caterina (credo fosse intitolato didascalicamente ‘Santa Caterina da Siena’ ma non ci giurerei) che conteneva una sequenza (la decapitazione pubblica di un omicida che Caterina converte prima dell’esecuzione) talmente impressionante (con il metro di giudizio di allora e per la mente di un bambino) che la ricordo ancora, nitidamente, più di sessant’anni dopo. Sul palco, davanti ad una enorme folla venuta ad assistere all'esecuzione, Santa Caterina benediva il condannato, poi si ritraeva. Il boia (un omone gigantesco con il viso coperto quasi completamente da un cappuccio nero) entrava in campo per eseguire la condanna (inquadratura della lama dell’ascia che si alza lentamente fino a stagliarsi contro il cielo e, dopo un lunghissimo attimo di esitazione, si abbassa veloce come un lampo, seguita da un rumore sordo e dall’urlo irreprimibile dell’invisibile folla fuori campo). E adesso Caterina si avvicinava al patibolo, prendeva fra le mani la testa del decapitato e la alzava al cielo. Che roba, ragazzi! Ricordo che quella notte fu più difficile prendere sonno. Con il capo quasi completamente nascosto sotto le coperte, ad occhi chiusi, rivedevo la scena: il boia, il ceppo, la testa, l'ascia... tàk! Ero impressionato, quasi stordito da quella visione. Ma tornato a casa pensavo, cercando di farmene una ragione: dopotutto quell’uomo era andato in Paradiso (almeno così mi aveva detto la mamma). Non sapevo se esserne sollevato o impressionato (in Paradiso senza testa?) ma comunque, se pure solo parzialmente rassicurato, potevo adesso rilassarmi e così, lentamente, poco a poco, mi addormentavo.
r.m.
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