domenica 30 dicembre 2012

Dolci di contrada

Durante la Festa Titolare, presso l'Incrociata, c'è sempre un banchetto con le fette dei dolci fatti in casa dalle donne di Fontebranda....

sabato 29 dicembre 2012

Indira Bella

Palio del 2 Luglio 2009 (vinto dalla Tartuca).


Due foto che ritraggono il cavallo del'OCA, Indira bella.

lunedì 24 dicembre 2012

Gemellaggio Trieste - Trieste.

Il 26 Marzo 2001 si disputava l'incontro di calcio tra il Venezia e la Robur, quest'ultima fresca di promozione in Serie B.
Nella sala consiliare del Comune di  Trieste, i contradaioli con il piatto ricordo donato a quella città.
Per l'occasione la Polisportiva della Società Trieste in Fontebranda organizzò una gita che, oltre alla possibilità di assistere alla partita, prevedeva per il giorno precedente anche una visita a Trieste, visita durante la quale i contradaioli poterono donare al Comune della bella città adriatica un piatto di ceramica per sancire, alla presenza delle autorità cittadine adriatiche, il forte legame tra la nostra Società di Contrada e Trieste, la città che ne aveva ispirato il nome.
(Per la cronaca la partita, disputata a Venezia il giorno successivo) si concluse, ahimè, con la vittoria dei lagunari per 3 a 0).

Il Popolo di Fontebranda

Alcune foto dei contradaioli dell'Oca in corteo dietro al loro cavallo in occasione di una prova del Palio del 2 Luglio 2006.



L'Oratorio di Santa Caterina

L'Oratorio della Contrada dell'OCA, in via Santa Caterina
Alcune foto del nostro bellissimo Oratorio. Quante volte abbiamo giocato, riso, scherzato, pianto e esultato davanti a quel cancello!
La statua lignea di santa Caterina, di Neroccio.
Vista frontale dell'Altare dell'Oratorio.
E magari, quando vi si entrava dentro, insieme alla marea umana degli amici contradaioli, o per cantare il "Te Deum" della Vittoria; o per partecipare al "Mattutino"; o per assistere alla benedizione del cavallo (che avveniva "dentro" la chiesa, allora), non si faceva nemmeno caso a quella stupenda opera d'Arte, opera suprema di Neroccio di Bartolomeo Landi, che raffigura una giovane contradaiola, Caterina, che assiste, partecipandovi, alle nostre emozioni.
2 Luglio 2007. Il Palio appena conquistato
accanto all'immagine della Santa.
Voglio ricordare il nostro l'Oratorio con poche foto, ma significative, nella speranza che la bellezza neoclassica (e un tantino piacevolmente kitsch), riesca sempre a renderci uniti nell'amore per la nostra Contrada.

sabato 15 dicembre 2012

FOTOROMANZO

Negli anni Settanta (non ricordo l'anno preciso), nelle edicole senesi comparve, credo in allegato ad un quotidiano, una pubblicazione che fece parlare di sé. Si trattava di un fotoromanzo. La cosa non era insolita (anche se quel genere di pubblicazioni era ormai in declino); quello che suscitò la curiosità unanime dei cittadini fu piuttosto la notorietà dell'interprete scelto per recitare (si dice così?) in una delle parti principali della storia rappresentata; si trattava nientepopodimeno che di Aceto, il grande Aceto, il fantino plurivittorioso, l'indiscussa superstar del Palio di quegli anni.
Mi è ricapitata tra le mani, da poco, la copia che comprai subito, spinto dalla curiosità. Poche pagine illustrate (male); una storia banale ma sgangherata abbastanza per poter essere definita (guardata con gli occhi di oggi) un vero "cult"; interpreti presi dalla realtà contradaiola in generale e fontebrandina in particolare. Il titolo intanto: "Una Storia di Siena", con un soggetto tratto (si diceva) da un racconto di un certo Guy de Beauregard (Guido di Bellosguardo?); interpreti principali Aceto e una certa Luisa Gabrielli.
La strana storia si dipana in pochi fotogrammi mal disposti su una ventina di pagine verdoline e spesso corredati da didascalie difficilmente leggibili; racconta una storia sfortunata di amore e delinquenza con, sullo sfondo, Siena ed il Palio.
Merita raccontarla (perché ognuno possa farsi un'opinione al riguardo):

Carla, che lavora come cucitrice (o sarta? o rammendatrice?) viene raggiunta inaspettatamente dal suo fidanzato Silvio (Enrico Toti), il quale in fretta e furia le comunica che deve partire improvvisamente per Torino (ragioni di lavoro, dice). Lei, stupita, lo saluta senza riuscire a dirgli che aspetta un bambino da lui: glielo dirà il giorno dopo, quando Silvio tornerà..
Il giorno dopo mentre Carla siede accanto al telefono aspettando la telefonata che annuncia il ritorno del fidanzato qualcuno suona alla sua porta: è un amico di Silvio che le comunica che l'uomo ha avuto un incidente stradale.. "E' grave" dice. Direi: Silvio era morto sul colpo (ed infatti Enrico Toti, da qui in poi, non si vede più). 
La povera ragazza dopo qualche giorno, smaltito il dolore, non può fare a meno di confessare all'irascibile padre il suo stato; ma incassati due ceffoni decide coraggiosamente di partire dal paesello dove viveva e, salutata la terra natìa, monta sul primo autobus che trova e parte verso un diverso destino, verso la grande città...: Siena!
Ma il destino cinico e baro è in agguato; la povera donna non è appena scesa dall'autobus che, ignara dei pericoli del traffico nelle città, viene investita da una moto. E' grave e, all'ospedale dove viene subito portata le comunicano la perdita del bambino che attendeva.. (vien da pensare alla celebre Gatta di Masino...). Ricoverata nel letto accanto a quello di Carla giace una signora; è gravemente ammalata agli occhi. Le due donne fanno amicizia; la signora, che si chiama Ofelia (sic!), confessa a Carla che, senza una certa operazione che potrebbe guarirla, la sua vita è in pericolo, ma non ha i soldi necessari per l'intervento ed è disperata. 
Qui entra in campo Aceto; egli è il figlio di Ofelia e, giorno dopo giorno, durante le sue visite alla mamma ammalata, stringe una sincera amicizia con Carla; i due divengono così amici che la ragazza, una volta dimessa dall'Ospedale trova accoglienza nella casa di Aceto dove questi vive con lo zio (sic!). 
Aceto fa il fantino ma non è ancora famoso e si arrangia come può, finché una sera, ad un "cocktail-party" (risìc!) dove ha portato anche Carla, viene presentato a Diego che Aceto riconosce come colui che investì con la moto la sua amica. Aceto e Carla ballano languidamente ma la ragazza è attirata da Diego che canta "una dolce melodia" (testuale!) le cui parole fanno così: "mentre le mie mani gridano verso il cielo i miei occhi bevono il nero che le inghiotte" (e basterebbe questo per alzare a livelli impensabili il valore di mercato di questo fotoromanzo); Carla è rapita, balla con Diego tutta la notte fino a che lui le propone di fuggire insieme. Poi lui le fa una proposta: "Vuoi venire con me? Ti condurrò nel luogo dove anche un lupo diventa un agnello... dai miei amici zingari". Carla (chissà perché) trova l'idea affascinante: "Ma devo sentire Aceto" dice prima di accettare. Aceto però ha il cuore d'oro: "Andate pure, io devo restare qui"; Carla e Diego partono in moto (presumibilmente quella che aveva investita la ragazza) fino ad un "accampamento zingaro" dove le due persone presenti, un uomo e una donna (chiamati rispettivamente Zoltan e Morgana), accolgono a braccia aperte la ragazza.
"Ti insegnerò subito la danza delle clessidre" dice Morgana a Carla, dopodiché i quattro "intonano antichi canti zingari" (sic!). Tornati a casa Carlo e Diego si accorgono di amarsi, un tenero bacio suggella il loro sentimento e i giorni seguenti il loro legame si rafforza. Lui canta accompagnandosi con la chitarra, lei ascolta rapita e dice: "Non sapevo che esistessero uomini come te... le tue parole mi toccano l'anima" mentre una didascalia spiega: "Siena, con gli occhi delle sue torri, è testimone dello sbocciare di questo amore" (testuale).
Ma il tempo è tiranno; la mamma di Aceto deve operarsi e non ha i soldi per l'intervento.."Aceto non ha ancora trovato la monta.." spiega Carla e Diego subito si dà da fare: va da Umberto, l'altro mangino della sua contrada e riesce a convincerlo ad ingaggiare Aceto per la corsa del prossimo Palio.. "Ti diamo 2 milioni per la monta.." gli promette Umberto; "Spero di meritarmeli" risponde Aceto.. (con quei soldi potrà far operare la mamma ammalata).
Ma il giorno del Palio va tutto storto; Aceto parte primo e resta in testa fino al terzo giro ma poi cade ("la cattiva sorte.." spiega la didascalia); per colmo di sfortuna il Palio lo va a vincere proprio l'avversaria! Aceto viene circondato dai (suoi) contradaioli inferociti e , dopo un violento scambio di opinioni lo ritroviamo ricoverato in ospedale. E' finita? Neanche per sogno: qui Umberto gli comunica che i soldi che gli spettavano per la monta "sono stati rubati" (!).
Il povero Aceto non può che commentare: "Maledizione!".
Pensando che il ladro sia Diego, Aceto rivela a Carla che era proprio questi colui che la investì. Diego viene incarcerato (ma perché?) ma pensa sempre a Carla.. "e io che non posso provarle la verità" dice rivolto all'inferriata.
Dopo qualche settimana Aceto riceve una strana telefonata. E' un ricatto: il vero ladro gli ordina di perdere la prossima corsa "dovrai frenare il tuo cavallo e lasciar vincere Nerina..."; solo in tal caso gli darà i soldi necessari a far operare la madre. Aceto parla con Carla e le dice che farà quanto ordinatogli: il suo amore per la mamma è così grande che per salvarla cederà all'odioso ricatto. Carla corre da Diego ("nel frattempo scarcerato per insufficienza di prove" testuale) e gli racconta tutto: i due non perdono tempo; in sella alla solita motocicletta, corrono sul luogo della corsa..
Siamo all'ippodromo; dopo il via Aceto parte in testa (parte sempre in testa...) ma dopo un pò comincia a rallentare: si è venduto? Neanche per caso: "conscio delle conseguenze egli aveva deciso di riportare la vittoria" avverte l'opportuna didascalia. Ma nei box viene affrontato dal ricattatore e minacciato con un forcone: aò, quello vuole ucciderlo! Ma proprio ora arrivano Diego e Carla; come una furia Diego affronta il bandito e con un deciso colpo di chitarra (va sempre in giro con la chitarra, Diego) lo stordisce. Il malvivente barcolla: ci pensa Aceto con un pugno ben assestato a stenderlo.
Per il finale facciamo parlare direttamente quanto riportato negli ultimi fotogrammi del fotoromanzo:

"e mentre il bandito viene catturato, Diego mette in moto la sua motocicletta..."
Carla (ad Aceto): "Andrea, caro, mi sono accorta solo ora di volerti bene"
Aceto (a Carla): "Anch'io Carla. Non te l'avevo mai detto, ma ti ho sempre amata in silenzio."
I due (all'unisono): "Diego! Diego! Aspetta dobbiamo spiegarti!"
(Diego parte in motocicletta)
Didascalia: "... e senza voltarsi si allontana verso il sole lontano".
FINE

Se non è un capolavoro questo...
R.M.



Un prezioso libriccino

La rivista di storia senese e paliesca "Il Carroccio" è da decenni la pubblicazione periodica più prestigiosa per quello che riguarda le curiosità, l'Arte e la Storia della città di Siena e delle sue Contrade.
Nel numero di Dicembre del 1994 fu allegato alla rivista, diretta dal nostro Senio Sensi, un volumetto, edito con la Collaborazione del Monte dei Paschi, che riproduceva in copia anastatica un vecchio libriccino scritto a metà del 1800 da Flaminio Rossi.
Il volumetto, intitolato "Elenco delle Vittorie", riportava, scritte a mano e corredate da disegni, tutte le vittorie "riconosciute" riportate nel Campo dalle Contrade di Siena.
E' un'opera preziosa, non tanto per il suo valore divulgativo, ma come testimonianza di un amore infinito per la città e la nostra Festa racchiusi in quelle poche pagine scritte in un'epoca che oggi, sia pure a distanza di pochi decenni, ci appare incredibilmente remota.
La bandiera della Contrada dell'OCA
nel libro di Flaminio Rossi
Dal libriccino, che ho la fortuna di possedere, riproduco il disegno che raffigura la bandiera della nostra Contrada, uno schizzo del quale le parole "naif" e "vintage" non riescono a sminuire la tenerezza che riesce a trasmettere.

lunedì 10 dicembre 2012

Senza titolo


Tavolozza fontebrandina
r.m.

mercoledì 5 dicembre 2012

Fontebrandini in Piazza Indipendenza. Agosto 2004.

Pare ieri....










lunedì 26 novembre 2012

Battesimo Contradaiolo nel 1967

Battesimo Contradaiolo alle Fonti.
In questa foto di gruppo: io con in braccio mia figlia Veronica (appena battezzata), mia moglie Franca, Maria Betti con Antonio e Marco (in braccio, appena battezzato).
Era il Maggio 1967.

r.m.

Anni Settanta



Due foto di un pomeriggio di un giorno di Palio, prima che la Comparsa si avvii per andare al Duomo...
Alfieri: Luppoli e Toti.
r.m.

sabato 24 novembre 2012

Il tempo ritrovato...

Alcune foto, sbiadite dal tempo, del mio album dei ricordi...
Franco Gori (Pancino) alfiere al corteo della Vittoria

Enzo Cortecci (Sanino), io, Onis e Giuseppe Bertini davanti alla
cannella dell'Incrociata

Corteo della Vittoria. Si riconoscono Enzo Luppoli,
Angiolino e Alfio Ruspetti

Carlo Alberto, l'indimenticabile Dudo, seduto davanti all'Oratorio
di Santa Caterina

domenica 19 agosto 2012

16 Agosto 2012

Anche se l'Oca non corre, quando è Palio è Palio. Così come faccio a non andare in Piazza Indipendenza ad aspettare l'ora della Mossa insieme agli altri ocaioli, tutti amici da una vita e tutti riuniti qui, per l'evento imperdibile, richiamati dall'amore per la nostra grande Contrada? Arrivo facendomi largo a stento tra l'immensa folla che satura letteralmente le strade principali dell'antica città toscana e quando arrivo nella piazza ecco che la trovo letteralmente gremita di ocaioli vecchi e giovani. Tra turisti accaldati che passano con la solita bottiglia d'acqua in una mano, procacissime giovanette discinte che in quest'occasione riescono a suscitare solo  una veloce (ma competente) occhiata di compiacimento, tassisti stremati, contradaioli stranieri fuori zona d'appartenenza e una rappresentanza di quasi tutte le comunità multietniche esistenti al mondo ecco che mi dirigo verso uno dei pochi gruppetti di coetanei che riesco ad adocchiare.
C'è Carmelo, Fabio il Laini, Giuliano e via via si aggiungono per qualche minuto ad ascoltare molti altri. Argomento principe è, ovviamente, il Palio, ma non si trascurano lunghe incursioni in quella malinconica ma piacevolissima disciplina dialettica (che tanto seduce i senesi anziani) detta "Dei bei tempi andati".
Sia chiaro, di questo Palio, vinca chi vuole, non ce ne può fregar di meno... quello che ci affascina è poter far rivivere i ricordi comuni, quelli che solo dal molteplice scambio dialettico di esperienze e sensazioni con i coprotagonisti assumono agli occhi degli estatici ascoltatori che si sono avvicinati a noi, gli eletti, ad ascoltar le meravigliose avventure alle quali loro non hanno assistito, il crisma della verità assoluta, la Cronaca Autentica di una sconosciuta e ormai perduta Età dell'Oro.
Si chiedono notizie degli assenti e per ognuno di loro si rievocano esperienze condivise ormai trasformate, dalle troppe volte in cui sono state raccontate, in divertenti aneddoti, o in detti popolari, o in miti che il tempo, l'abitudine, l'assenza di critiche ed il generale apprezzamento hanno reso inattaccabili.
Certo, a guardar indietro con occhi consapevoli, la differenza rispetto ad adesso è stridente, lacerante, dolorosa.
Ma vi ricordate amici (se ce ne siete di meno giovani a legger queste quattro righe) come era la Contrada allora?
La Contrada era né più né meno che la nostra vita.
Il nostro tempo si divideva tra quello che passavamo in strada e quello in cui, assenti nostro malgrado per impegni familiari o scolastici, attendevamo solo l'ora per rituffarcisi.
La nostra strada (la Contrada è composta da molte strade, ma fra queste solo una era quella in cui ognuno di noi si sentiva "a casa sua") era la nostra casa, la Contrada era la nostra Patria, Siena era la nostra Nazione. Tutto quello che avveniva in una "nostra" famiglia, ad una "nostra" persona, gli accadimenti pubblici e privati che coinvolgevano un contradaiolo, arrivavano subito in strada dove venivano commentati e analizzati con la stessa compartecipazione che si riserva ad un parente, ad un amico del cuore.
Immemori della miseria nera che coinvolgeva e preoccupava la maggior parte delle nostre famiglie, nei pomeriggi estivi le strade della Contrada risuonavano delle grida assordanti dei ragazzi e dei "cittini" che si raggruppavano in base al sesso e all'età per dedicarsi ai giochi che usavano allora. Nelle strade di Fontebranda c'era sempre una trentina fra ragazzi e ragazze che si scalmanavano a giocare. Le bambine giocavano a "anintré, canarin fumé, la mariannanfà..." scagliando la palla contro il muro e cercando di riprenderla al volo dopo varie piroette; quelle più grandicelle si affannavano a saltare da una parte all'altra della strada giocando a "campana" (disegnata col gesso al centro della via); noi, i maschi, a volte divisi per strada di appartenenza (quelli della Galluzza da sé, quelli di Santa Caterina da sé) ci si accaniva in duelli pazzeschi con le cerbottane o le spade (di sambuco), si correva per arrivare al "salvo" a ringuattarello, ci si incaponiva nelle sfide a "tappini" (ogni dieci metri in ogni strada c'era una pista disegnata col gesso o col carbone per permettere di giocarci a "pista") o si giocava a "scaloncino" con le figurine (non c'era gradino di casa che non fosse occupato stabilmente da due ragazzi tutti impegnati e così presi dal gioco che non si sarebbero alzati per tutto l'oro del mondo e bisognava scavalcarli per poter entrare a casa). E non ho parlato dei giochi con la palla (palle autarchiche di ogni tipo e grandezza, la maggior parte delle quali fabbricate in un minuto con due fogli di giornale arrotolati strettamente e tenuti fermi con uno spago)....
Tutti i giochi avvenivano simultaneamente nelle strade che si riunivano all'Incrociata e sia quelli dei maschi che quelli delle femmine avevano l'allegra (per noi) caratteristica che i partecipanti gridavano tutti a voce altissima sì da dar vita, con le strade effervescenti di movimento e di rumore, ad una specie di girone dantesco in miniatura e riservato non tanto ai dannati (che erano semmai quelli che non sopportavano tanta frenesia e ci mandavano continuamente, inascoltati, al diavolo) ma a noi, angeli di contrada, appartenenti ad un tempo che credevamo felicemente immutabile...

Sono quasi le sette. Scendiamo per via Santa Caterina verso la Trieste dove seguiremo l'inutile corsa (giacché noi non si corre) in TV. Giro attorno uno sguardo smarrito e preoccupato, simile a quelli che gli sfollati di un terremoto danno alle loro case quando viene dato loro il permesso di tornarvi e le ritrovano danneggiate o distrutte.
Nessuno nelle strade. Qualche motorino lasciato qua e là. Da una finestra esce il suono di una musica interrotto da pazze risate sconsiderate. Su uno scalino una bottiglietta di birra abbandonata. E la gente? E i ragazzi? Dove sono tutti? 
Alla Trieste, davanti allo schermo televisivo le immagini della corsa cancellano per un pò le tristi considerazioni di prima; il Palio è sempre il Palio, entusiasmante, coinvolgente, ammaliante... ma non è "lo stesso" Palio di allora, su questo non c'è alcun dubbio. 
E Siena non è la stessa città di allora (penso) e nemmeno la mia contrada è più quella di allora... ma questo pensiero, che tutti noi della mia età condividiamo, lasciamolo restare dove sta.. nel profondo dei nostri cuori e delle nostri menti. Non evochiamolo, non diamogli voce. Il tempo passa noi malgrado e tutte le cose, anche le più belle, passano irrimediabilmente. Ringraziamo piuttosto Dio per averci concesso di vivere una stagione irripetibile della nostra vita.

mercoledì 14 marzo 2012

La mano della morta

Fu un caso. Dagli e ridàgli un tiro maldestro invece che in porta aveva mandato il pallone al di là del muro che congiungeva la parete della chiesa con quella della rampa di scale che sale a San Domenico lasciandoci a metà partita, allibiti, sudati e con un palmo di naso. Quasi ogni pomeriggio ci si trovava lì, nel cortile sottostante il pozzo del Santuario di Santa Caterina, con un pallone raccogliticcio e tanta voglia di giocare. Erano gli anni Cinquanta, Fontebranda era piena di ragazzi che cercavano di ingegnarsi in qualunque modo per dar libero sfogo alle energie giovanili e quell'idea di andare a tirar quattro calci a una palla in quel luogo tranquillo (santo, direi), lontano dalle case, dove non passavano auto e nascosto fra quattro mura, era stata salutata con entusiasmo da tutti noi. C'è da dire che i frati Olivetani (i custodi del Santuario) non erano rimasti particolarmente entusiasti dall'idea e che le suore cateriniane, insofferenti del baccano che inevitabilmente saliva fin dentro la chiesa disturbando il raccoglimento loro e dei fedeli, avevano protestato parecchio contro questa nostra iniziativa che, invece a noi, piaceva al punto da considerarla irrinunciabile; la consideravamo insomma un appuntamento fisso al quale non volevamo in nessun modo mancare. Si era arrivati così ad una specie di tacito compromesso: quando si sentivano le campane della funzione serale suonare per la seconda volta, noi, seppur a malavoglia, raccattavamo il pallone e le nostre giacche e ci trasferivamo a far cagnara da un'altra parte.
Quella sera invece la partita rischiava di abortire prematuramente; la palla era sparita al di là del muro e, oltre i soliti accidenti a chi ce l'aveva buttata, non sapevamo come fare per andare a riprendercela.
Beh, il bisogno aguzza l'ingegno. Dopo essermi proposto per andare a cercar di recuperare la palla ecco che con l'aiuto di due o tre volenterosi che mi spinsero dal basso mi trovai in breve a cavalcioni della sommità del muro, a tre metri da terra.
Scendendo dall'altra parte (era facile: c'erano più appigli) mi trovai in una specie di corridoio artificiale; le due pareti vicinissime della chiesa e della scalinata formavano infatti una specie di vicolo buio (lì non ci batteva mai il sole) e strettissimo, largo poco più di un metro, umido e scivoloso per il muschio che copriva il pavimento in mattoni; il passaggio arrivava fino in fondo, poi, all'altezza dell'alta parete di tufo, voltava repentinamente a sinistra. Nonostante la voglia di prendere la palla (era proprio lì, ai miei piedi) e tornarmene a giocare con i miei amici volli andare a vedere cosa c'era al di là dell'angolo (sono sempre stato curioso come un gatto). Beh, il passaggio proseguiva per pochi metri costeggiando la parte opposta della chiesa e poi si arrestava davanti ad un grosso cancello di ferro. Ma...
Beh, era strano. Sulla destra, scavata nel tufo, si apriva l'imbocco di quella che sembrava essere una caverna, o una grotta. L'apertura di quella che mi si rivelò essere una galleria era alta poco più di 80 centimetri; proseguiva per due o tre metri in avanti, poi, voltando ancora a sinistra, si addentrava nel tufo perdendosi nel buio. Ero sbalordito, eccitato, con la mente in subbuglio, in preda a mille domande. Cos'era quel tunnel misterioso? Dove portava? A cosa serviva? Una volta recuperata la palla ed esser tornato dai miei amici, non potei fare a meno di raccontare la mia scoperta e per quella sera, dopo aver terminato la nostra partita, non si parlò d'altro.
La notte non ci dormii. Un passaggio segreto! Dove conduceva, perché era stato costruito... mille domande, mille congetture fantasiose mi affollavano la mente. Ero deciso: dovevo essere il primo a esplorarlo.
Il giorno successivo, munito di candela e di scatola di fiammiferi (presi da casa all'insaputa della mamma) trovato Giuseppino (in quegli anni eravamo pressoché inseparabili) gli raccontai cosa mi proponevo di fare e lui accettò subito di seguirmi in quell'impresa. Attenti a che nessuno ci seguisse e facendo di tutto per non dare nell'occhio, scendemmo nel cortile deserto, poi, aiutandoci a vicenda, fu facile scavalcare il muro.
Scesi dall'altra parte e arrivati in un lampo all'imboccatura, io davanti e lui dietro, cominciammo ad addentrarci nello stretto tunnel. Era tutto buio e non sapevamo nemmeno se sarebbe sbucato da qualche parte o se sarebbe terminato improvvisamente. Avanzavo cautamente, al buio, piegato in avanti per non sbattere la testa nell'invisibile soffitto, posando lentamente un piede davanti all'altro; tenevo la mano destra tesa davanti al viso per evitare di sbattere il naso in qualche ostacolo improvviso mentre la sinistra la allungavo di lato a sfiorare la sconosciuta parete di quel misterioso budello che si addentrava nelle viscere della terra. Che emozione! Cha scariche di adrenalina! Avevo deciso di non usare la candela preferendo avere le mani libere, e così procedevo alzando i piedi senza sapere dove ero né verso dove andavo; Giuseppe mi seguiva a brevissima distanza senza dir niente: l'emozione era così forte che non potevamo nemmeno parlare. Ragazzi, a ripensarci ora, e s'era incoscienti forte! Dopo qualche metro sentii che la galleria si faceva meno bassa permettendomi di avanzare a schiena dritta. Ancora qualche metro e poi sentii che c'era una salita. Tendendo le mani ora a sinistra ora a destra per evitare di perdere contatto con le pareti mi resi conto che la strada ora andava in salita. "Robe, torniamo indietro!" mi fece Giuseppe. Il buio ora era totale; avevamo percorso più di trenta metri senza sapere dove eravamo e dove andavamo, ma la voglia di proseguire era ormai irrefrenabile. Giunto su quella che giudicai essere la sommità della breve salita mi accorsi che ora il tunnel ora scendeva. Ancora pochi passi fatti con estrema cautela e vidi un chiarore davanti a me. Non ci credevo. "Ci siamo!" dissi al mio amico. Ancora qualche metro e sbucammo all'aperto. Ci trovammo in un ambiente strettissimo, sbarrato, davanti a noi da una parete in muratura chiusa da una porticina di legno. Sulla destra, in alto, una grata da dietro la quale si sentiva parlottare. Senza quasi respirare per paura di essere scoperto, mi issai fino alla grata. Detti uno sguardo al di là dove vidi due o tre monache che parlavano tra di loro. Erano i loro appartamenti; avevamo fatto il giro della chiesa. Provai ad aprire la porticina di legno ma era irrimediabilmente chiusa. Tornammo indietro fieri ed eccitati per quella avventura. Ero contento per aver dimostrato a me stesso di aver avuto tutto quel coraggio e nello stesso tempo ero deluso per non aver saputo dove portava la porticina.
Il giorno dopo non mi feci scappare l'occasione di raccontare a tutti i miei amici la mia avventura, arricchita di tutti i particolari (a dire il vero anche più di tutti; molti di più). 
"La mano della morta" al cinema
Bisogna considerare che quello era il tempo in cui andavano di moda certi filmoni gotici, pieni di inquietanti atmosfere e di suspense dove giovani donne sfortunate incappavano in mariti avidi o psicopatici che si ingegnavano per somministrare alle sventurate le più orrende sevizie; penso a titoli come "La casa sulla scogliera", "Rebecca", "Dietro la porta chiusa" e altri dello stesso genere; per quanto riguarda la letteratura (a quei tempi leggevano tutti, mica come oggi) spopolavano i serial di Eugène Sue e i romanzi di Hugo e Dumas pieni di misteri e di orribili delitti e tutti conoscevano poi certi classici nazionalpopolari come "La cieca di Sorrento", "La muta di Portici", "Le due orfanelle", "La sepolta viva" o "La mano della morta".
Proprio quest'ultimo titolo mi ispirò. Cominciai a fare congetture sullo scopo del misterioso tunnel e a poco a poco le mie fantasticherie fecero presa sulle menti dei miei amici.
Un tunnel nascosto... un passaggio segreto... nei pressi di una chiesa... vicino ad un convento... Ero certo, dissi, che qui ci trovavamo di fronte ad un mistero. Probabilmente anticamente il passaggio era servito alle monache di clausura per poter uscire senza esser notate, forse qualcuna di esse era rimasta vittima di un amore sacrilego e profano: nessun dubbio che in questo caso, la sventurata, come coloro che incappavano nello stesso genere di misfatto, sarebbe stata atrocemente punita, probabilmente murata viva proprio nelle pareti di quella caverna.
D'accordo, logica ce n'era poca (e fantasia tanta) in questi discorsi, ma ci piaceva immaginare, lasciar volare la mente; volevamo sognare una realtà avventurosa che trascendesse le piccole miserie che, a quei tempi, tutti dovevamo in qualche misura sopportare.
Morale della favola: il giorno dopo io e una decina di ragazzi eravamo pronti ad una esplorazione approfondita del cunicolo sotterraneo.
Questa volta ognuno di noi aveva una torcia e qualcuno si era munito anche di qualche robusto paletto di legno caso mai ci si fosse imbattuti in qualche arrabbiatissimo spirito di morto. Saltiamo al di là del muro, percorriamo lo stretto passaggio fino all'imbocco del tunnel, e poi, in fila indiana, cominciamo la nostra spedizione. Questa volta andavo più speditamente agevolato dalla fioca luce della torcia che avevo con me e dal fatto di essere ormai un veterano di quel luogo; dietro a me seguiva Fabio il Laini e via via tutti gli altri. Oddìo, di suspense ce n'era pochina; man mano che procedevamo quel tunnel si svelava per quello che realmente era: un passaggio stretto, basso, ma tutto sommato abbastanza agevole, creato con tutta probabilità per facilitare i lavori, di costruzione prima e di manutenzione poi, della chiesa. Urgeva qualche idea per non buttare al vento quella che da avventura da ricordare rischiava di trasformarsi in una passeggiata collettiva abbastanza insensata... l'occasione si presentò quando, poco prima della piccola salita che si trovava circa a metà della caverna, Fabio intravide qualcosa di strano nella parete di mattoni, sulla sinistra. Alla fioca luce della torcia risultò che c'era una apertura nel muro; sembrava fonda e larga poco più di un pugno. "Fammi vedere cose c'è, là dentro" dissi, cercando di far penetrare la luce della torcia più a fondo che potevo. Niente; il buco era fondo una trentina di centimetri ed era vuoto. "Ma che c'è laggiù in fondo?" chiese Fabio che aveva visto qualcosa di indefinito che appariva scura e tentacolare. La luce non illuminava sufficientemente così gli chiesi di allungare la mano per cercar di capire di cosa si trattasse ma proprio in quello stesso istante un'idea geniale mi si affacciò alla mente. Spinsi con forza dentro quel pertugio il braccio di Fabio fino a fargli toccare il fondo e contemporaneamente mi misi ad urlare a gran voce "E' una mano! La mano della morta!". Urla disperate, torce che si spengono, Fabio che schizza indietro, poi  scappa urlando, tutti che tornano sui loro passi e fuggono più presto che possono nel buio più pesto sbattendo teste, braccia e gambe nelle pareti sempre più strette.
In un attimo siamo tutti fuori dal cunicolo, in due secondi si fa a ritroso la stradina, si scavalca il muro gettandosi quasi di sotto, poi si corre via a perdifiato e ci si ritrova finalmente all'Incrociata, ammaccati, polverosi, ansimanti. Che avventura, ragazzi! Avevamo avuto la nostra grande giornata! La mano della morta non ci aveva presi! Finalmente anche noi avevamo qualcosa da raccontare!
E quello che era accaduto doveva proprio averci colpito perché ci se ne ricorda (e si racconta) anche oggi.

lunedì 9 gennaio 2012

Lessico fontebrandino: Troiaio

Troiaio: parola usatissima dal popolo fontebrandino che la usa in moltissime occasioni pubbliche e private. Innanzitutto c'è da dire che "troiaio" è sia un sostantivo che un aggettivo qualificativo anche se, prima di spiegarne (avvalendosi di opportuni esempi) la differenza, sarà bene dare subito la definizione della parola che ci interessa.
"Troiàio" (sost. maschile*, singolare). Plur.: "troiai".
dimin.: "troiaìno" = piccolo troiaio.
Etimologìa: da "troia", femmina del maiale, nota, insieme al maschio, per razzolare, contenta, tra le cose più sporche, ributtanti e sgradevoli. 
Pronuncia: scandire bene le sillabe (attenzione all'accento tonico sulla "a") accompagnando la pronuncia con arricciamento schifato delle labbra e scuotimento del capo ad indicare profondo disprezzo per la cosa in sé e delusione per chi l'ha prodotta, o acquistata, o regalata o che comunque ce l'ha presentata).
Prima definizione: Cosa fatta male, o schifosa, o repellente, o di poco conto o comunque di qualità, aspetto, forma o composizione mediocre, abborracciata o incompleta che la rendono inadatta allo scopo per la quale era stata fatta o acquistata.
Esempi: 
(dal grande al bambino incaricato di preparare le ghirlande per la festa della Madonna): "T'avevo detto di preparà un pò di colla con l'acqua e la farina e guarda un pò che razza di troiaio hai fatto!";
(il marito alla moglie, sedendosi a tavola davanti ad un piatto poco appetitoso): "O Cesira, t'avevo chiesto di prepararmi la pansanella come piace a me e te mi presenti 'sto popò di troiaio!";
(la maestra all'alunno che le presenta il quaderno dei còmpiti tutto pieno di scarabocchi e macchie d'unto): "Pierino, questo non è un quaderno: è un troiaio!";
(uno che non se ne intende ad un altro che non se ne intende, uscendo dalla Mostra di Pittura del Museo d'Arte Contemporanea di Via di Città, commentando i quadri che hanno visto): "Boh; sarà anche Arte come dicono ma a me mi sembrano dei bei troiai";
(uno che la mattina, uscendo per andare al lavoro - o dal vinaio - trova il sacchetto della spazzatura rotto e la soglia del portone di casa sua invasa da bucce di popone, lische di pesce, ossa di pollo semispolpate e arance strizzate): "Io gli spaccherei il capo a chi ha combinato questo popò di troiaio!".
Seconda definizione
1- Essere vivente (uomo o animale) sgraziato, deforme o goffo al limite dell'impresentabilità; 
2- donna assai racchia.
Esempi: 
(a proposito della nuova fidanzata che l'amico ci ha appena presentato): "Che non fosse tanto bella me l'avevano detto, ma un troiaio come quella bisogna impegnassi ammodo per trovarla"; *dove si vede che troiaio va anche al femminile
(dando un potente calcione al cane che, cercando di non farsi notare, si sta pericolosamente avvicinando ai nostri piedi): "Và a piscià da un'altra parte, troiaio!" (aggiungendo, se del caso): "Te e quell'altro troiaio della tù padrona!".
Il lèmma, sia pure quando usato come aggettivo, non ha superlativo, limitandosi il suo rafforzativo al sempre valido "popò" ("Accidenti che popò di troiaio!"; "L'ha voluta preparà lui la minestra: ha fatto un popò di troiaio che 'un la vòle nemmeno il gatto") mentre il diminuitivo "troiaino" spesso, lungi dall'attenuare la portata critica della parola, viene a voler aggiungere alla stessa un senso ironicamente mortificante per il soggetto al quale l'appellativo è destinato:
(la ragazza, aprendo con delicatezza ed eccessiva aspettativa il pacchettino con l'anello che il fidanzato le aveva preannunciato da giorni): "Fa vedé, fa vedé: toh! O che è 'sto troiaìno?".
In casi estremi però la parola, usata come sostantivo, può assumere addirittura un significato dinamicamente positivo, assumendo la funzione giocosa di sollecitare qualcuno all'azione:
(i giovani, passando davanti al tavolino dove l'amico, solo, sta seduto da mezz'ora a leggere il giornale e a guardar passare la gente): "Si và a giocà a pallone al Campino! Gnamo, troiaio, muoviti da costì!".
La parola con il tempo, benché desueta, non ha perduto però la sua carica sovversiva fortemente critica nei confronti di chi si impegna a fare qualcosa e poi disattende le promesse ed anche oggi si sente sempre più spesso usata a proposito dell'ingresso del nostro amato Belpaese nella tanto decantata Europa Unita.
"Lo sai che è quest'euro che ci hanno rifilato? Un bel troiaio!" diranno al vedere aumentare in continuazione tasse, benzina e disoccupazione i fontebrandini preoccupati di come si stanno mettendo le cose.
"Un bel troiaio davvero!" risponderanno all'unisono gli altri italiani che, anche se ignari del significato della parola fontebrandina, avvertono purtuttavia come si attagli a meraviglia alla loro situazione.





 
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