domenica 30 dicembre 2012
Dolci di contrada
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sabato 29 dicembre 2012
Indira Bella
Palio del 2 Luglio 2009 (vinto dalla Tartuca).
Due foto che ritraggono il cavallo del'OCA, Indira bella.
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lunedì 24 dicembre 2012
Gemellaggio Trieste - Trieste.
Nella sala consiliare del Comune di Trieste, i contradaioli con il piatto ricordo donato a quella città. |
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Il Popolo di Fontebranda
Alcune foto dei contradaioli dell'Oca in corteo dietro al loro cavallo in occasione di una prova del Palio del 2 Luglio 2006.
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L'Oratorio di Santa Caterina
L'Oratorio della Contrada dell'OCA, in via Santa Caterina |
La statua lignea di santa Caterina, di Neroccio. |
Vista frontale dell'Altare dell'Oratorio. |
2 Luglio 2007. Il Palio appena conquistato accanto all'immagine della Santa. |
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sabato 15 dicembre 2012
FOTOROMANZO
Qui entra in campo Aceto; egli è il figlio di Ofelia e, giorno dopo giorno, durante le sue visite alla mamma ammalata, stringe una sincera amicizia con Carla; i due divengono così amici che la ragazza, una volta dimessa dall'Ospedale trova accoglienza nella casa di Aceto dove questi vive con lo zio (sic!).
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Un prezioso libriccino
La bandiera della Contrada dell'OCA nel libro di Flaminio Rossi |
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lunedì 10 dicembre 2012
mercoledì 5 dicembre 2012
Fontebrandini in Piazza Indipendenza. Agosto 2004.
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lunedì 26 novembre 2012
Battesimo Contradaiolo nel 1967
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Anni Settanta
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sabato 24 novembre 2012
Il tempo ritrovato...
Franco Gori (Pancino) alfiere al corteo della Vittoria |
Enzo Cortecci (Sanino), io, Onis e Giuseppe Bertini davanti alla cannella dell'Incrociata |
Corteo della Vittoria. Si riconoscono Enzo Luppoli, Angiolino e Alfio Ruspetti |
Carlo Alberto, l'indimenticabile Dudo, seduto davanti all'Oratorio di Santa Caterina |
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domenica 19 agosto 2012
16 Agosto 2012
C'è Carmelo, Fabio il Laini, Giuliano e via via si aggiungono per qualche minuto ad ascoltare molti altri. Argomento principe è, ovviamente, il Palio, ma non si trascurano lunghe incursioni in quella malinconica ma piacevolissima disciplina dialettica (che tanto seduce i senesi anziani) detta "Dei bei tempi andati".
Sia chiaro, di questo Palio, vinca chi vuole, non ce ne può fregar di meno... quello che ci affascina è poter far rivivere i ricordi comuni, quelli che solo dal molteplice scambio dialettico di esperienze e sensazioni con i coprotagonisti assumono agli occhi degli estatici ascoltatori che si sono avvicinati a noi, gli eletti, ad ascoltar le meravigliose avventure alle quali loro non hanno assistito, il crisma della verità assoluta, la Cronaca Autentica di una sconosciuta e ormai perduta Età dell'Oro.
Si chiedono notizie degli assenti e per ognuno di loro si rievocano esperienze condivise ormai trasformate, dalle troppe volte in cui sono state raccontate, in divertenti aneddoti, o in detti popolari, o in miti che il tempo, l'abitudine, l'assenza di critiche ed il generale apprezzamento hanno reso inattaccabili.
Certo, a guardar indietro con occhi consapevoli, la differenza rispetto ad adesso è stridente, lacerante, dolorosa.
Ma vi ricordate amici (se ce ne siete di meno giovani a legger queste quattro righe) come era la Contrada allora?
La Contrada era né più né meno che la nostra vita.
Il nostro tempo si divideva tra quello che passavamo in strada e quello in cui, assenti nostro malgrado per impegni familiari o scolastici, attendevamo solo l'ora per rituffarcisi.
La nostra strada (la Contrada è composta da molte strade, ma fra queste solo una era quella in cui ognuno di noi si sentiva "a casa sua") era la nostra casa, la Contrada era la nostra Patria, Siena era la nostra Nazione. Tutto quello che avveniva in una "nostra" famiglia, ad una "nostra" persona, gli accadimenti pubblici e privati che coinvolgevano un contradaiolo, arrivavano subito in strada dove venivano commentati e analizzati con la stessa compartecipazione che si riserva ad un parente, ad un amico del cuore.
Immemori della miseria nera che coinvolgeva e preoccupava la maggior parte delle nostre famiglie, nei pomeriggi estivi le strade della Contrada risuonavano delle grida assordanti dei ragazzi e dei "cittini" che si raggruppavano in base al sesso e all'età per dedicarsi ai giochi che usavano allora. Nelle strade di Fontebranda c'era sempre una trentina fra ragazzi e ragazze che si scalmanavano a giocare. Le bambine giocavano a "anintré, canarin fumé, la mariannanfà..." scagliando la palla contro il muro e cercando di riprenderla al volo dopo varie piroette; quelle più grandicelle si affannavano a saltare da una parte all'altra della strada giocando a "campana" (disegnata col gesso al centro della via); noi, i maschi, a volte divisi per strada di appartenenza (quelli della Galluzza da sé, quelli di Santa Caterina da sé) ci si accaniva in duelli pazzeschi con le cerbottane o le spade (di sambuco), si correva per arrivare al "salvo" a ringuattarello, ci si incaponiva nelle sfide a "tappini" (ogni dieci metri in ogni strada c'era una pista disegnata col gesso o col carbone per permettere di giocarci a "pista") o si giocava a "scaloncino" con le figurine (non c'era gradino di casa che non fosse occupato stabilmente da due ragazzi tutti impegnati e così presi dal gioco che non si sarebbero alzati per tutto l'oro del mondo e bisognava scavalcarli per poter entrare a casa). E non ho parlato dei giochi con la palla (palle autarchiche di ogni tipo e grandezza, la maggior parte delle quali fabbricate in un minuto con due fogli di giornale arrotolati strettamente e tenuti fermi con uno spago)....
Tutti i giochi avvenivano simultaneamente nelle strade che si riunivano all'Incrociata e sia quelli dei maschi che quelli delle femmine avevano l'allegra (per noi) caratteristica che i partecipanti gridavano tutti a voce altissima sì da dar vita, con le strade effervescenti di movimento e di rumore, ad una specie di girone dantesco in miniatura e riservato non tanto ai dannati (che erano semmai quelli che non sopportavano tanta frenesia e ci mandavano continuamente, inascoltati, al diavolo) ma a noi, angeli di contrada, appartenenti ad un tempo che credevamo felicemente immutabile...
Sono quasi le sette. Scendiamo per via Santa Caterina verso la Trieste dove seguiremo l'inutile corsa (giacché noi non si corre) in TV. Giro attorno uno sguardo smarrito e preoccupato, simile a quelli che gli sfollati di un terremoto danno alle loro case quando viene dato loro il permesso di tornarvi e le ritrovano danneggiate o distrutte.
Nessuno nelle strade. Qualche motorino lasciato qua e là. Da una finestra esce il suono di una musica interrotto da pazze risate sconsiderate. Su uno scalino una bottiglietta di birra abbandonata. E la gente? E i ragazzi? Dove sono tutti?
Alla Trieste, davanti allo schermo televisivo le immagini della corsa cancellano per un pò le tristi considerazioni di prima; il Palio è sempre il Palio, entusiasmante, coinvolgente, ammaliante... ma non è "lo stesso" Palio di allora, su questo non c'è alcun dubbio.
E Siena non è la stessa città di allora (penso) e nemmeno la mia contrada è più quella di allora... ma questo pensiero, che tutti noi della mia età condividiamo, lasciamolo restare dove sta.. nel profondo dei nostri cuori e delle nostri menti. Non evochiamolo, non diamogli voce. Il tempo passa noi malgrado e tutte le cose, anche le più belle, passano irrimediabilmente. Ringraziamo piuttosto Dio per averci concesso di vivere una stagione irripetibile della nostra vita.
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mercoledì 14 marzo 2012
La mano della morta
Quella sera invece la partita rischiava di abortire prematuramente; la palla era sparita al di là del muro e, oltre i soliti accidenti a chi ce l'aveva buttata, non sapevamo come fare per andare a riprendercela.
Beh, il bisogno aguzza l'ingegno. Dopo essermi proposto per andare a cercar di recuperare la palla ecco che con l'aiuto di due o tre volenterosi che mi spinsero dal basso mi trovai in breve a cavalcioni della sommità del muro, a tre metri da terra.
Scendendo dall'altra parte (era facile: c'erano più appigli) mi trovai in una specie di corridoio artificiale; le due pareti vicinissime della chiesa e della scalinata formavano infatti una specie di vicolo buio (lì non ci batteva mai il sole) e strettissimo, largo poco più di un metro, umido e scivoloso per il muschio che copriva il pavimento in mattoni; il passaggio arrivava fino in fondo, poi, all'altezza dell'alta parete di tufo, voltava repentinamente a sinistra. Nonostante la voglia di prendere la palla (era proprio lì, ai miei piedi) e tornarmene a giocare con i miei amici volli andare a vedere cosa c'era al di là dell'angolo (sono sempre stato curioso come un gatto). Beh, il passaggio proseguiva per pochi metri costeggiando la parte opposta della chiesa e poi si arrestava davanti ad un grosso cancello di ferro. Ma...
Beh, era strano. Sulla destra, scavata nel tufo, si apriva l'imbocco di quella che sembrava essere una caverna, o una grotta. L'apertura di quella che mi si rivelò essere una galleria era alta poco più di 80 centimetri; proseguiva per due o tre metri in avanti, poi, voltando ancora a sinistra, si addentrava nel tufo perdendosi nel buio. Ero sbalordito, eccitato, con la mente in subbuglio, in preda a mille domande. Cos'era quel tunnel misterioso? Dove portava? A cosa serviva? Una volta recuperata la palla ed esser tornato dai miei amici, non potei fare a meno di raccontare la mia scoperta e per quella sera, dopo aver terminato la nostra partita, non si parlò d'altro.
La notte non ci dormii. Un passaggio segreto! Dove conduceva, perché era stato costruito... mille domande, mille congetture fantasiose mi affollavano la mente. Ero deciso: dovevo essere il primo a esplorarlo.
Il giorno successivo, munito di candela e di scatola di fiammiferi (presi da casa all'insaputa della mamma) trovato Giuseppino (in quegli anni eravamo pressoché inseparabili) gli raccontai cosa mi proponevo di fare e lui accettò subito di seguirmi in quell'impresa. Attenti a che nessuno ci seguisse e facendo di tutto per non dare nell'occhio, scendemmo nel cortile deserto, poi, aiutandoci a vicenda, fu facile scavalcare il muro.
Scesi dall'altra parte e arrivati in un lampo all'imboccatura, io davanti e lui dietro, cominciammo ad addentrarci nello stretto tunnel. Era tutto buio e non sapevamo nemmeno se sarebbe sbucato da qualche parte o se sarebbe terminato improvvisamente. Avanzavo cautamente, al buio, piegato in avanti per non sbattere la testa nell'invisibile soffitto, posando lentamente un piede davanti all'altro; tenevo la mano destra tesa davanti al viso per evitare di sbattere il naso in qualche ostacolo improvviso mentre la sinistra la allungavo di lato a sfiorare la sconosciuta parete di quel misterioso budello che si addentrava nelle viscere della terra. Che emozione! Cha scariche di adrenalina! Avevo deciso di non usare la candela preferendo avere le mani libere, e così procedevo alzando i piedi senza sapere dove ero né verso dove andavo; Giuseppe mi seguiva a brevissima distanza senza dir niente: l'emozione era così forte che non potevamo nemmeno parlare. Ragazzi, a ripensarci ora, e s'era incoscienti forte! Dopo qualche metro sentii che la galleria si faceva meno bassa permettendomi di avanzare a schiena dritta. Ancora qualche metro e poi sentii che c'era una salita. Tendendo le mani ora a sinistra ora a destra per evitare di perdere contatto con le pareti mi resi conto che la strada ora andava in salita. "Robe, torniamo indietro!" mi fece Giuseppe. Il buio ora era totale; avevamo percorso più di trenta metri senza sapere dove eravamo e dove andavamo, ma la voglia di proseguire era ormai irrefrenabile. Giunto su quella che giudicai essere la sommità della breve salita mi accorsi che ora il tunnel ora scendeva. Ancora pochi passi fatti con estrema cautela e vidi un chiarore davanti a me. Non ci credevo. "Ci siamo!" dissi al mio amico. Ancora qualche metro e sbucammo all'aperto. Ci trovammo in un ambiente strettissimo, sbarrato, davanti a noi da una parete in muratura chiusa da una porticina di legno. Sulla destra, in alto, una grata da dietro la quale si sentiva parlottare. Senza quasi respirare per paura di essere scoperto, mi issai fino alla grata. Detti uno sguardo al di là dove vidi due o tre monache che parlavano tra di loro. Erano i loro appartamenti; avevamo fatto il giro della chiesa. Provai ad aprire la porticina di legno ma era irrimediabilmente chiusa. Tornammo indietro fieri ed eccitati per quella avventura. Ero contento per aver dimostrato a me stesso di aver avuto tutto quel coraggio e nello stesso tempo ero deluso per non aver saputo dove portava la porticina.
Il giorno dopo non mi feci scappare l'occasione di raccontare a tutti i miei amici la mia avventura, arricchita di tutti i particolari (a dire il vero anche più di tutti; molti di più).
"La mano della morta" al cinema |
Proprio quest'ultimo titolo mi ispirò. Cominciai a fare congetture sullo scopo del misterioso tunnel e a poco a poco le mie fantasticherie fecero presa sulle menti dei miei amici.
Un tunnel nascosto... un passaggio segreto... nei pressi di una chiesa... vicino ad un convento... Ero certo, dissi, che qui ci trovavamo di fronte ad un mistero. Probabilmente anticamente il passaggio era servito alle monache di clausura per poter uscire senza esser notate, forse qualcuna di esse era rimasta vittima di un amore sacrilego e profano: nessun dubbio che in questo caso, la sventurata, come coloro che incappavano nello stesso genere di misfatto, sarebbe stata atrocemente punita, probabilmente murata viva proprio nelle pareti di quella caverna.
D'accordo, logica ce n'era poca (e fantasia tanta) in questi discorsi, ma ci piaceva immaginare, lasciar volare la mente; volevamo sognare una realtà avventurosa che trascendesse le piccole miserie che, a quei tempi, tutti dovevamo in qualche misura sopportare.
Morale della favola: il giorno dopo io e una decina di ragazzi eravamo pronti ad una esplorazione approfondita del cunicolo sotterraneo.
Questa volta ognuno di noi aveva una torcia e qualcuno si era munito anche di qualche robusto paletto di legno caso mai ci si fosse imbattuti in qualche arrabbiatissimo spirito di morto. Saltiamo al di là del muro, percorriamo lo stretto passaggio fino all'imbocco del tunnel, e poi, in fila indiana, cominciamo la nostra spedizione. Questa volta andavo più speditamente agevolato dalla fioca luce della torcia che avevo con me e dal fatto di essere ormai un veterano di quel luogo; dietro a me seguiva Fabio il Laini e via via tutti gli altri. Oddìo, di suspense ce n'era pochina; man mano che procedevamo quel tunnel si svelava per quello che realmente era: un passaggio stretto, basso, ma tutto sommato abbastanza agevole, creato con tutta probabilità per facilitare i lavori, di costruzione prima e di manutenzione poi, della chiesa. Urgeva qualche idea per non buttare al vento quella che da avventura da ricordare rischiava di trasformarsi in una passeggiata collettiva abbastanza insensata... l'occasione si presentò quando, poco prima della piccola salita che si trovava circa a metà della caverna, Fabio intravide qualcosa di strano nella parete di mattoni, sulla sinistra. Alla fioca luce della torcia risultò che c'era una apertura nel muro; sembrava fonda e larga poco più di un pugno. "Fammi vedere cose c'è, là dentro" dissi, cercando di far penetrare la luce della torcia più a fondo che potevo. Niente; il buco era fondo una trentina di centimetri ed era vuoto. "Ma che c'è laggiù in fondo?" chiese Fabio che aveva visto qualcosa di indefinito che appariva scura e tentacolare. La luce non illuminava sufficientemente così gli chiesi di allungare la mano per cercar di capire di cosa si trattasse ma proprio in quello stesso istante un'idea geniale mi si affacciò alla mente. Spinsi con forza dentro quel pertugio il braccio di Fabio fino a fargli toccare il fondo e contemporaneamente mi misi ad urlare a gran voce "E' una mano! La mano della morta!". Urla disperate, torce che si spengono, Fabio che schizza indietro, poi scappa urlando, tutti che tornano sui loro passi e fuggono più presto che possono nel buio più pesto sbattendo teste, braccia e gambe nelle pareti sempre più strette.
In un attimo siamo tutti fuori dal cunicolo, in due secondi si fa a ritroso la stradina, si scavalca il muro gettandosi quasi di sotto, poi si corre via a perdifiato e ci si ritrova finalmente all'Incrociata, ammaccati, polverosi, ansimanti. Che avventura, ragazzi! Avevamo avuto la nostra grande giornata! La mano della morta non ci aveva presi! Finalmente anche noi avevamo qualcosa da raccontare!
E quello che era accaduto doveva proprio averci colpito perché ci se ne ricorda (e si racconta) anche oggi.
lunedì 9 gennaio 2012
Lessico fontebrandino: Troiaio
Etimologìa: da "troia", femmina del maiale, nota, insieme al maschio, per razzolare, contenta, tra le cose più sporche, ributtanti e sgradevoli.
Esempi:
(dal grande al bambino incaricato di preparare le ghirlande per la festa della Madonna): "T'avevo detto di preparà un pò di colla con l'acqua e la farina e guarda un pò che razza di troiaio hai fatto!";
(il marito alla moglie, sedendosi a tavola davanti ad un piatto poco appetitoso): "O Cesira, t'avevo chiesto di prepararmi la pansanella come piace a me e te mi presenti 'sto popò di troiaio!";
(la maestra all'alunno che le presenta il quaderno dei còmpiti tutto pieno di scarabocchi e macchie d'unto): "Pierino, questo non è un quaderno: è un troiaio!";
(uno che non se ne intende ad un altro che non se ne intende, uscendo dalla Mostra di Pittura del Museo d'Arte Contemporanea di Via di Città, commentando i quadri che hanno visto): "Boh; sarà anche Arte come dicono ma a me mi sembrano dei bei troiai";
(uno che la mattina, uscendo per andare al lavoro - o dal vinaio - trova il sacchetto della spazzatura rotto e la soglia del portone di casa sua invasa da bucce di popone, lische di pesce, ossa di pollo semispolpate e arance strizzate): "Io gli spaccherei il capo a chi ha combinato questo popò di troiaio!".
Seconda definizione:
1- Essere vivente (uomo o animale) sgraziato, deforme o goffo al limite dell'impresentabilità;
2- donna assai racchia.
Esempi:
(a proposito della nuova fidanzata che l'amico ci ha appena presentato): "Che non fosse tanto bella me l'avevano detto, ma un troiaio come quella bisogna impegnassi ammodo per trovarla"; *dove si vede che troiaio va anche al femminile
(dando un potente calcione al cane che, cercando di non farsi notare, si sta pericolosamente avvicinando ai nostri piedi): "Và a piscià da un'altra parte, troiaio!" (aggiungendo, se del caso): "Te e quell'altro troiaio della tù padrona!".
Il lèmma, sia pure quando usato come aggettivo, non ha superlativo, limitandosi il suo rafforzativo al sempre valido "popò" ("Accidenti che popò di troiaio!"; "L'ha voluta preparà lui la minestra: ha fatto un popò di troiaio che 'un la vòle nemmeno il gatto") mentre il diminuitivo "troiaino" spesso, lungi dall'attenuare la portata critica della parola, viene a voler aggiungere alla stessa un senso ironicamente mortificante per il soggetto al quale l'appellativo è destinato:
(la ragazza, aprendo con delicatezza ed eccessiva aspettativa il pacchettino con l'anello che il fidanzato le aveva preannunciato da giorni): "Fa vedé, fa vedé: toh! O che è 'sto troiaìno?".
In casi estremi però la parola, usata come sostantivo, può assumere addirittura un significato dinamicamente positivo, assumendo la funzione giocosa di sollecitare qualcuno all'azione:
(i giovani, passando davanti al tavolino dove l'amico, solo, sta seduto da mezz'ora a leggere il giornale e a guardar passare la gente): "Si và a giocà a pallone al Campino! Gnamo, troiaio, muoviti da costì!".
La parola con il tempo, benché desueta, non ha perduto però la sua carica sovversiva fortemente critica nei confronti di chi si impegna a fare qualcosa e poi disattende le promesse ed anche oggi si sente sempre più spesso usata a proposito dell'ingresso del nostro amato Belpaese nella tanto decantata Europa Unita.
"Lo sai che è quest'euro che ci hanno rifilato? Un bel troiaio!" diranno al vedere aumentare in continuazione tasse, benzina e disoccupazione i fontebrandini preoccupati di come si stanno mettendo le cose.
"Un bel troiaio davvero!" risponderanno all'unisono gli altri italiani che, anche se ignari del significato della parola fontebrandina, avvertono purtuttavia come si attagli a meraviglia alla loro situazione.
Pubblicato da Roberto Mulinacci alle 06:59 0 commenti