domenica 21 agosto 2011

Vita in Fontebranda. 1. Polli e rivolti

C'è da dire che in quegli anni in Fontebranda c'era un sacco di botteghe; erano di ogni tipo e tutte situate vicino all'Incrociata.
Ad esempio, in Via Santa Caterina, scendendo si sarebbe trovato subito il carbonaio, importantissimo allora (mi riferisco alla fine degli anni Quaranta e ai primi degli anni Cinquanta) quando sia per cucinare che per riscaldarsi il carbone era indispensabile; dall'altro lato della strada c'era poi  Mentana, con la sua bottega di frutta e verdura, e, dieci metri più giù, sulla destra, il forno di Tocco. Salendo la via invece ecco, subito il frequentatissimo negozio di alimentari del Bini e, pochi metri più su, dall'altro lato della strada, la bottega del lattaio. Proprio all'Incrociata c'era poi il vinaio, una specie di osteria con vendita del vino al dettaglio che permetteva agli avventori anche di sedersi ad un tavolo e mangiare il cibo portato da casa. In via della Galluzza si trovavano due botteghe di falegname e il barbiere mentre, proprio in cima alla Costa di sant'Antonio, esisteva pure una bottega di macellaio, ambiente pochissimo frequentato dalle famiglie ocaiole causa penuria di materia prima (nessun riferimento alla carne: erano i soldi che mancavano). 
Insomma occasioni di far spesa c'erano, in Fontebranda, al punto che uno poteva benissimo non andare mai "insù" tanto tutto quello di cui aveva bisogno lo avrebbe trovato nel raggio di cento metri dalla cannella dell'Incrociata.
Ho già parlato della mancanza cronica di soldi ma mangiare bisognava pur mangiare e anche in Fontebranda, ad esser sinceri, il pranzo con la cena si riusciva a metterli insieme.
Devo dire che le mamme erano impagabili; il termine "creatività" tanto usato (e spesso a sproposito) in questi tempi non riesce a dare l'idea di come dovevano ingegnarsi per dar da mangiare alla famiglia, specialmente se c'era un bambino.
Ricordo grandi pastasciutte col "sugo finto" (un battuto soffritto di carota, pomodoro, sedano e "erbucce" che dava alla pasta, se non la sostanza, ma almeno un colore che richiamava quello del ragù di carne), varie minestre estemporanee tutte a base di "dado" (i dadi in casa mia non mancavano mai) e a volte la "farinata con gli scriccioli", incredibile minestra "raccattata" fatta di farina bollita nell'acqua alla quale venivano aggiunti, per dargli un pò di sapore, alcuni pezzettini di pane fritti nell'olio (gli scriccioli, appunto). Per il resto insalate, patate, tonno, aringhe, baccalà, affettàti, frittate di varie specie e, in certi casi di grave penuria di materia prima, i mitici "rivolti", che la mamma cucinava, uno ad uno, lasciando cadere in una padellina di ferro dove aveva messo a friggere due gocciole d'olio, un cucchiaio di pastella fatta di acqua e farina. La pastella si spandeva nella padella formando una specie di "crepe" (si direbbe oggi, alla francese) sottile sottile fino a che, cotta da un lato, occorreva "rivoltarla" (ecco il perché del nome) dall'altro. Per fare questa operazione il termine creatività è insufficiente; bisogna aggiungerci un altro termine: abilità. La mamma toglieva per un attimo la padella dal fuoco e, tenendone il manico con le due mani, dava un breve, ma deciso colpo all'insù. Il "rivolto" cotto a metà volava in aria e, dopo essersi opportunamente "rivoltato", ricadeva nella padella dall'altro lato! Fantastico, stupendo!. Una volta pronti i rivolti venivano disposti uno sull'altro su un piatto messo al centro della tavola da dove, a turno, venivano presi, cosparsi di zucchero, arrotolati e divorati (specie dal sottoscritto) a velocità impressionante.
La carne, quella, si vedeva poco; un'occasione era il Natale, giorno in cui le mamme preparavano l'arrosto. A tal fine il pollo (comprato vivo e portato in casa due giorni prima di Natale dal babbo) dopo aver passato la notte con noi (immagino con quali sinistri presagi), il mattino successivo veniva velocemente soppresso tramite tiratura di collo, e, dopo un'altra giornata nella quale poteva frollare bene bene, veniva poi spennato accuratamente, sventrato, pulito (senza buttar via niente, per carità!) e, dopo essere stato preparato dentro e fuori con tutti i crismi (sale, aglio, rosmarino, olio e un pò di pepe) veniva adagiato, insieme ad una quantità industriale di patate (perché tante? costavano poco) nella teglia d'alluminio che, il giorno del Santo Natale, portavo religiosamente da Tocco, il fornaio. Tocco la disponeva nel forno (lasciato acceso apposta dopo aver sfornato il pane) accanto ad altre decine di teglie consorelle; qui gli arrosti natalizi rosolavano a dovere fino a mezzogiorno quando mi mandavano a riprendere la teglia. Portata a casa la teglia col pollo fumante faceva bella mostra di sé profumando tutta la cucina, poi, dopo aver mangiato le tagliatelle fatte in casa col sugo di carne (di pollo, ovviamente) veniva portata trionfalmente in tavola (apparecchiata con le posate "bone", e con i tovaglioli e la tovaglia  del corredo della mamma) dove, similmente a decine di famiglie fontebrandine simili alla mia, veniva celebrato il rito della consumazione "del pollo arrosto".
Miseria c'era a quei tempi, in Fontebranda come altrove, e sbarcare il lunario era impresa tutt'altro che facile per le povere famiglie che si stavano appena rimettendo in piedi dopo una guerra disastrosa, ma il Natale era il Natale e, posso giurarlo, non ho più mangiato un pollo più saporito, croccante e profumato di quello preparato dalla mamma, cotto da Tocco, e portato in tavola, sulla tovaglia bianca, come quello.

domenica 14 agosto 2011

I Giochi - 2 - Spade e zufoli

In quei tempi bisognava far conto di quello che si aveva e di quello che si poteva avere: poco. Le pistole, con o senza fulminanti, ci permettevano un tipo di gioco-battaglia (oggi si chiamerebbero "giochi di ruolo") che, a lungo andare, poteva annoiare. A noi ragazzi, ci annoiò dopo pochissimo tempo. O che gusto c'era ad avere una pistola (fosse pure una di quelle a tamburo, coi fulminanti a capsula e da riporre in una fondina di plastichetta marrone moscia moscia che si teneva appesa alla cintola dei pantaloni) se poi, gira e rigira, tutto quello che ci si poteva fare era tirarla fuori nel modo più "ganzo" possibile (come s'era visto fare a Alan Ladd, al "Senese"), farla roteare (come faceva John Wayne, anche lui visto al "Senese") e limitarci a premere il grilletto (con: botto di fulminante o semplice "Bum!" con la bocca) gridando "Morto!" al nemico di turno (quasi sempre uno di noi sorteggiato nella parte del pellerossa, ruolo oltremodo antipatico che nessuno voleva fare). A parte le contestazioni ("Non m'hai preso!"; "Ho sparato prima io!"; "Non vale!") era sempre la solita solfa; mancava il contatto, il pericolo, l'abilità insomma; era solo un piccolo miglioramento del vecchio "nascondino", gioco praticatissimo nei dintorni dell'Incrociata anche se noi lo schiamavamo "ringuattarello".
Insomma, le pistole ci vennero a noia presto; passammo ad altro.
Seguì un periodo che, sull'onda di certi film di cappa e spada come "Scaramouche", "Le avventure di Lagardère", "I tre moschettieri" e "Capitan Blood", si videro le lastre di Fontebranda infestate da ragazzini tarantolati che, uno contro l'altro o schierati in gruppi, erano sempre a far duelli a "spadate" (con le "spade" che si costruivano andando a cercare tra le piante di sambuco che crescevano intorno al "Rastrello" quelle più adatte, quelle con i rami lunghi, dritti e dello spessore giusto, che sembravano fatti apposta per essere trasformati, tolta la scorza, in temibili facsimili delle celebri arme bianche). Da un estremo all'altro: qui il contatto c'era, eccome! Non passava sera che, dopo qualche ora trascorsa a menare e ricevere fendenti, qualcuno non tornasse a casa pieno di lividi e sbucciature o con la camicia strappata. Anche queste sfide all'arma bianca, avversatissime dalle nostre famiglie, non potevano durare. Che fare?
Non so chi fu il primo. So solo che un giorno, senza che si sapesse chi, come e perché, qualcuno introdusse anche da noi, l'arte della cerbottana.
Questa sì che era un'arma seria. Innanzitutto tirava proiettili veri; di carta, ma veri. E poi non ammetteva contestazioni: se eri colpito, eri colpito. Permetteva di ideare strategie, di sperimentare tattiche, di sviluppare qualità balistiche... Per farla breve la cerbottana ci piacque subito; a tutti. In un amen Fontebranda fu invasa da decine di ragazzi pronti a sfidarsi a colpi (meglio: a soffi) di cerbottana. 
La cerbottana
Non c'era un ragazzo in Fontebranda che andasse in giro senza la sua cerbottana. Le prime erano ricavate da un pezzo di canna il più possibile dritta che veniva tagliata da nodo e nodo, ma come la manìa delle cerbottane si diffuse, si cercarono nuovi materiali. Prevalsero quelli di metallo, ricavati da una parte di quell'asta lunga e forata al suo interno (dove passa il filo elettrico) che serve per tenere il lampadario appeso al soffitto. Si fecero cerbottane di ferro, di stagno, di ottone; ognuno teneva la sua come fosse un piccolo tesoro. Io volli strafare.
Tramite un amico elettricista il babbo mi aveva portato in regalo un pezzo di portalampadario in rame; appena l'ebbi visto decisi che quella sarebbe stata la mia cerbottana. Era lunga poco più di 30 centimetri e aveva un diametro di circa un centimetro scarso. Era drittissima, lucida e brillante come l'oro ed io la tenevo come fosse un tesoro. La lucidavo in ogni occasione e, dopo averla schiacciata un poco, avevo smerigliato con la carta vetrata (per renderla meno spessa) quella estremità che sarebbe divenuta l'imboccatura. La lunghezza della mia cerbottana era ideale per poterla nascondere dentro la manica, sotto la camicia anche se andare in giro a quel modo mi costringeva a tenere il braccio rigido in maniera palesemente innaturale (essendo lo zufolo più lungo dell'avambraccio). Con le cerbottane davamo vita a battaglie infinite dove ci si sfidava in ogni modo; strada contro strada, portone contro portone, finestra contro finestra... Cosa si tirava con le cerbottane? Gli zufoli, ovvio. Lo zufolo (il proiettile della cerbottana) si costruiva al bisogno (ci si metteva meno di 5 secondi!) arrotolando, a partire da un angolo, una striscia di carta la cui punta poi si saldava con la saliva, rigirandosela in bocca. Se poi lo zufolo era fatto con la carta oliata, quella lucida e spessa, era stretto e lungo, chiuso bene, tagliato a misura e se si sapeva usar bene la lingua, ecco che si poteva lanciare a distanze notevoli (sparar fuori lo zufolo, a saperlo far bene, era una specie di arte; una volta, in Piazza del Campo, lanciai uno zufolo fino all'orologio della Torre del Mangia).
Ognuno di noi usciva di casa già pronto per la battaglia, con la cerbottana in mano o nascosta dentro la manica e, appesi alla cintola dei pantaloni, un mazzetto di strisce di carta della lunghezza giusta, bell'e pronte per divenire zufoli appena ce ne fosse bisogno. Io e altri come me, uscivamo di casa con altri tre o quattro zufoli bell'e pronti infilati tra i capelli. Scelti chi sarebbero stati i compagni e chi i "nemici", via con la battaglia!. Riparati nei portoni o dietro gli angoli delle strade cercavamo di colpirci a vicenda soffiando zufolate pazzesche a ripetizione. "Preso!"; "Morto!"; le urla rintronavano per le strade intorno all'Incrociata, gli zufoli sfrecciavano incrociandosi come saette da ogni parte rischiando di colpire chiunque passasse da quelle parti tanto che i rumori della battaglia, i richiami delle mamme dalle finestre, preoccupate che qualcuno non finisse accecato, e i frequenti "State attenti, figliol di tr..ie!" di qualche passante un pò lezzo capitato in mezzo a quel fuoco di sbarramento risuonavano tutto intorno formando in quei pomeriggi di primavera una specie di particolare cacofonìa polimorfa, così gioiosamente minacciosa, popolare e sguaiata e che, anche chi, sopra pensiero, non sapesse effettivamente dove fosse capitato, non poteva far altro che convenire, tra sé e sé: "Càvolo; qui siamo davvero in Fontebranda!".

giovedì 11 agosto 2011

I Tornei di calcio 2 - Al Campansi

Insomma, il calcio ci aveva contagiato di brutto un pò tutti in Fontebranda, dopo che, stanchi di tirar calci a palloni confezionati con carta di giornale e spago per farli entrare in porte virtuali (identificate da due giacchette ripiegate a tre metri di distanza l'una dall'altra) su per la Galluzza, in Santa Caterina o (a rischio granatate) nella piazzetta del Portico dei Comuni, avevamo assaggiato il dolce profumo del vero football nei primissimi tornei organizzati al Costone.
Così, dopo il primo anno, ognuno di noi aveva cercato di guardarsi intorno per vedere se poteva entrare a far parte di una squadra un pò meno sgangherata e partecipare a qualche campionato "serio".
Beh, premesso subito che qualcuno ci riuscì e fu anche ingaggiato da squadre "vere", benché dilettantistiche, (penso a Stoppa, A Pancino, a Bembere, a Zanzara, a Enzo Vizia e ad altri per non parlare del più bravo di tutti noi, il grande Dudo Casini), nel nostro piccolo anche noi che eravamo un pò più scarsi ci si dette parecchio da fare.
Campansi, 1958. I 3 mancini: io, Luciano Collini e Enzo Vizia


Dopo i tornei del Costone si passò a quelli dell'Oratorio e successivamente alle partecipazioni ai campionati in "Commenda" (alias Istituto Campansi) dove le partite erano combattutissime e si risolvevano in sfide accanite fra squadre di tutta la città.
Che soddisfazione quando potevamo raccontare di come eravamo riusciti a battere la tale squadra o il modo in cui avevamo segnato quel gol spettacoloso!
C'è da dire che un bell'incentivo alla nostra passione per quello che era ormai diventato  il nostro gioco preferito la dette il mitico Padre Agostino. Padre Agostino era un frate dell'Ordine degli Olivetani (oltre che una bravissima persona) che, nominato Rettore della Basilica di Santa Caterina, aveva pensato che avrebbe potuto incrementare notevolmente il nostro attaccamento alla chiesa e la nostra frequenza alle funzioni religiose, sponsorizzando (diciamo così) la nostra passione per il gioco del calcio.
Organizzò una squadra (della quale furono chiamati a far parte tutti e solo noi, ragazzi di Fontebranda), acquistò maglie da gioco nuove (tutte uguali! col numero!), pantaloncini, calzettoni (ai parastinchi ognuno, se li voleva, ci si doveva pensare da sé) e, per i più bravi, persino scarpe da football (quelle coi tacchetti che tutti avrebbero voluto e che quasi nessuno possedeva, allora).
E per qualche anno non si limitò ad iscrivere la nostra squadra al campionato di Commenda ma organizzò anche partite amichevoli contro le formazioni giovanili di paesi vicini alla città, come Taverne D'Arbia, San Rocco e una volta (udite, udite!) anche contro la squadra dei giovani frati di Monte Oliveto (di cui tratterò in un altro capitolo perché ne vale la pena).
Erano partite mitiche, trasferte fatte con uno o due pullman alle quali partecipavano non solo i giocatori ma anche tutta una piccola folla di ragazzi, fidanzate, genitori, amici e conoscenti, tutti eccitati al pensiero di poter trascorrere una domenica diversa, all'aria aperta, ad incitare la "loro" squadra.
Che belle giornate! Che bei ricordi! Che bei tempi quelli, per noi che avevamo avuto la fortuna di essere nati e cresciuti proprio in quegli anni splendenti, e proprio lì, dalle parti dell'Incrociata!

P.S.
(Un ricordo e un saluto dovunque tu sia, caro Padre Agostino! Anche a nome di tutti i tuoi "ragazzi" di allora).


domenica 7 agosto 2011

I GIOCHI - 1 Pistole e fulminanti

In quegli anni in Fontebranda noi ragazzi non ci s'annoiava di certo; per divertirci bastava poco: si poteva addirittura scegliere tra cento giochi diversi e senza bisogno di giocattoli (che quelli si vedevano, e pochi, solo per il Ceppo o in certe ricorrenze straordinarie), e anche, parrà strano, senza bisogno della televisione, dei giochini elettronici, dei Wi-Fi e di tutte quelle seghe tecnologiche che rendono il cervello di chi ne abusa simile alla Piazza del campo la mattina del giorno che segue il Palio: una specie di caotica pattumiera. Noi invece l'avevamo la creatività; eccome se l'avevamo! La situazione generale di quei tempi a dire il vero aiutava molto il nostro spirito di iniziativa e contribuiva a sviluppare le inventive di ognuno. Dunque: soldi non ce n'erano, divertire bisognava pur divertirsi (eravamo ragazzi, diamine!) e così ci si arrangiava in mille modi. 
I nostri giochi avevano pochissime regole in comune: erano collettivi e si svolgevano in strada (tutto, accadeva in strada). Nella scelta dei giochi si andava secondo la moda del momento, sarebbe a dire: a sbornie. Uno tirava fuori un gioco nuovo e, se era interessante, tutti lo seguivano.
C'erano diversi tipi di giochi; parliamo dei giochi guerreschi.

Prima vennero le pistole. Siccome necessitava sborsare dei soldi (che non c'erano) le famiglie regalavano questo tipo di giocattolo principalmente a Natale, quando, bene o male, uno straccio di regalo bisognava pur farlo ai ragazzi! Si trattava di pistole di latta stampata o di piombo o di stagno e perfino (in alcuni casi) di ghisa (io ne avevo una di ghisa!). Le prime pistole erano mute e per farle sparare non si poteva far altro che gridare un bel "Pam!" all'indirizzo dell'avversario colpito. Poi vennero i fulminanti; premendo il grilletto della pistola, il cane batteva nel fulminante ed ecco un bel bòtto ad incrementare il realismo dell'azione. I primi fulminanti erano del tipo "a nastro"; erano cioè contenuti, uno di seguito all'altro su un nastrino arrotolato di carta rossa. Premendo il grilletto si faceva esplodere il fulminante e contemporaneamente avanzare il nastro di uno scatto. Oddio, spesso i fulminanti facevano cilecca (quasi "tutti" i fulminanti della mia pistola di ghisa, facevano cilecca): si premeva il grilletto, il cane scattava e non succedeva niente. Niente scoppio, niente botto, solo un puzzìcchio di fosforo bruciato; insomma, nessuna soddisfazione. Presto i fulminanti a nastro vennero soppiantati da quelli a capsula, che si inserivano nelle pistole a tamburo. Questi avevano il difetto (gravissimo) di essere più costosi ma, a dire il vero, non fallivano un bòtto. In quei giorni le strade intorno all'Incrociata risuonavano di scoppi (le battaglie a pistolettate, uno contro uno, o una banda di ragazzi contro un'altra, non finivano mai) e questi, mischiati ai "Fatela finita, figliol di tr...!" urlati dalle mamme alle finestre e dai rari passanti, contribuiva a fare di quei pomeriggi (che sarebbero stati banali e noiosi in qualunque altro luogo del mondo), delle specie di happening animatissimi e piene di confusione, grida, baruffe e rumori come oggi succede solo nelle più distinte discoteche, il sabato sera.
Le pistole erano diventate di moda, da noi ragazzi, da quando non passava settimana che al Senese, il cinema più popolare della città (e quindi il meno caro, e quindi il più frequentato dai ragazzi), non dessero un film "di indiani", e comunque, anche senza andare al cinema, sarebbero bastati gli amatissimi giornalini di Pecos Bill a farci sognare di poter rivivere anche da noi, in Fontebranda, le avventure che capitavano settimanalmente all'eroe, laggiù, nel selvaggio West.

Oddìo, con le pistole ci si divertiva il giusto (cioè poco) perché più di puntarla addosso al nemico e premere il grilletto non si poteva fare. E inoltre, come ho detto, c'era anche il rischio che il fulminante non scoppiasse o che sorgessero contestazioni su chi aveva colpito chi o chi era stato il primo a sparare. Risultato: la moda delle pistole durò poco. Avevamo bisogno di ben altro, noi.

sabato 6 agosto 2011

Il vestito buono

Bembere, Zanzara, il Marchetti e il Mugnaini (1952)
In questa foto del 1952 (abbastanza malridotta) ecco, in posa davanti ad un muro del Santuario di Santa Caterina, Roberto Barbagli, Luciano Collini, il Marchetti e il Mugnaini. Beh, per avere solo 11 anni, avevo già pensato di allineare i miei amici in ordine crescente di altezza: quando si dice possedere il dono dell'inquadratura!
La foto è un bell'esempio di "come eravamo". Probabilmente l'ho scattata di domenica o comunque in un giorno di festa dato che tutti i miei amici indossano il "vestito buono", con tanto di giacca e cravatta. Il Marchetti sfoggia anche un paio di pantaloni "alla zuava", prima tappa, allora, prima dei calzoni lunghi, mentre il Mugnaini è addirittura "elegante" con le sue scarpe bicolori e il fazzoletto che fa capolino dal taschino della giacca.
L'atmosfera della foto, impagabile per la sua capacità di far rivivere per un attimo un mondo che non c'è più, è calma, disinvolta e rilassata;  nella sua semplicità, una piccola, grande foto.

martedì 2 agosto 2011

Alla Taverna di Bacco (ex "Pocce di ghisa")

Dalla fine degli anni Settanta un rito che a poco a poco divenne imperdibile (anche perché "portava bene": da quando avevamo cominciato la Torre non faceva che ripurgarsi) era quello della merenda pre-Palio alla "Taverna di Bacco", in Beccheria. Da quando la gestione della trattoria era andata a Bu'apere (Mario Zazzeroni) e a sua moglie, prima di ogni palio, e cioè non appena il Campanone cominciava a rintoccare, ecco che in molti ci ritrovavamo davanti ad un tavolo e, seduti in strada, davanti all'ingresso della popolare trattoria, iniziavamo una merenda propiziatoria a base di crostini, pecorino, prosciutto, pilza e (tanto) vino bòno.

Un "gotto" propiziatorio
In attesa del momento più importante(quello della mossa, per intenderci), si scherzava, ci si prendeva in giro, si facevano i commenti più beceri sui passanti e, soprattutto, si intonavano a squarciagola tutti i canti ocaioli che conoscevamo, dall'immancabile "Paperone" a "Sèssempre...", da "Te lo dicevo Torre" a "E quand'ero piccino piccino" e via col repertorio.
L'appuntamento alla Taverna di Bacco (o, come alcuni dicevano, da "Pocce di ghisa" in omaggio ad una precedente e non dimenticata ostessa dell'esercizio) divenne propiziatorio e c'è da dire che finché durò (poi, si sa, le cose cambiano, e in peggio) la Torre non si azzardò nemmeno per sbaglio a vincere un Palio. Ma questo, si sa, in quegli anni (e anche in questi), era abbastanza normale.
Nella foto del 16 Agosto 1979, davanti alla "Taverna".
Da sinistra: il sottoscritto, Ernesto Zazzeroni (semicoperto), Aldino, Sandro Brizzi (Stoppa), Giuseppe Bertini, Bu'apere e Onis Feri.

lunedì 1 agosto 2011

La prima macchina fotografica

Io con Senio al Rastrello (1962)
Senio era bravissimo a pallone; forse il più bravo tra tutti i miei coetanei e spesso andavamo a San Prospero ad allenarci "a passaggi" (così si diceva) negli spazi tra gli alberi vicini alla fontana.


Una delle prime foto fu questa: ritrae il sottoscritto e Senio Sensi (in quel tempo eravamo inseparabili) in posa davanti allo stadio del Rastrello.
Saremo stati nel 1952 (o 53).
Come si vede siamo entrambi in pantaloni corti; io ho a tracolla la custodia della famosa Voiglandter e, quanto allo sfondo, più che uno stadio, rassomiglia ad una specie di campo coltivato (la Serie A era lontana, allora).

 
Quelli dell'Incrociata © 2008