C'è da dire che in quegli anni in Fontebranda c'era un sacco di botteghe; erano di ogni tipo e tutte situate vicino all'Incrociata.
Ad esempio, in Via Santa Caterina, scendendo si sarebbe trovato subito il carbonaio, importantissimo allora (mi riferisco alla fine degli anni Quaranta e ai primi degli anni Cinquanta) quando sia per cucinare che per riscaldarsi il carbone era indispensabile; dall'altro lato della strada c'era poi Mentana, con la sua bottega di frutta e verdura, e, dieci metri più giù, sulla destra, il forno di Tocco. Salendo la via invece ecco, subito il frequentatissimo negozio di alimentari del Bini e, pochi metri più su, dall'altro lato della strada, la bottega del lattaio. Proprio all'Incrociata c'era poi il vinaio, una specie di osteria con vendita del vino al dettaglio che permetteva agli avventori anche di sedersi ad un tavolo e mangiare il cibo portato da casa. In via della Galluzza si trovavano due botteghe di falegname e il barbiere mentre, proprio in cima alla Costa di sant'Antonio, esisteva pure una bottega di macellaio, ambiente pochissimo frequentato dalle famiglie ocaiole causa penuria di materia prima (nessun riferimento alla carne: erano i soldi che mancavano).
Insomma occasioni di far spesa c'erano, in Fontebranda, al punto che uno poteva benissimo non andare mai "insù" tanto tutto quello di cui aveva bisogno lo avrebbe trovato nel raggio di cento metri dalla cannella dell'Incrociata.
Ho già parlato della mancanza cronica di soldi ma mangiare bisognava pur mangiare e anche in Fontebranda, ad esser sinceri, il pranzo con la cena si riusciva a metterli insieme.
Devo dire che le mamme erano impagabili; il termine "creatività" tanto usato (e spesso a sproposito) in questi tempi non riesce a dare l'idea di come dovevano ingegnarsi per dar da mangiare alla famiglia, specialmente se c'era un bambino.
Ricordo grandi pastasciutte col "sugo finto" (un battuto soffritto di carota, pomodoro, sedano e "erbucce" che dava alla pasta, se non la sostanza, ma almeno un colore che richiamava quello del ragù di carne), varie minestre estemporanee tutte a base di "dado" (i dadi in casa mia non mancavano mai) e a volte la "farinata con gli scriccioli", incredibile minestra "raccattata" fatta di farina bollita nell'acqua alla quale venivano aggiunti, per dargli un pò di sapore, alcuni pezzettini di pane fritti nell'olio (gli scriccioli, appunto). Per il resto insalate, patate, tonno, aringhe, baccalà, affettàti, frittate di varie specie e, in certi casi di grave penuria di materia prima, i mitici "rivolti", che la mamma cucinava, uno ad uno, lasciando cadere in una padellina di ferro dove aveva messo a friggere due gocciole d'olio, un cucchiaio di pastella fatta di acqua e farina. La pastella si spandeva nella padella formando una specie di "crepe" (si direbbe oggi, alla francese) sottile sottile fino a che, cotta da un lato, occorreva "rivoltarla" (ecco il perché del nome) dall'altro. Per fare questa operazione il termine creatività è insufficiente; bisogna aggiungerci un altro termine: abilità. La mamma toglieva per un attimo la padella dal fuoco e, tenendone il manico con le due mani, dava un breve, ma deciso colpo all'insù. Il "rivolto" cotto a metà volava in aria e, dopo essersi opportunamente "rivoltato", ricadeva nella padella dall'altro lato! Fantastico, stupendo!. Una volta pronti i rivolti venivano disposti uno sull'altro su un piatto messo al centro della tavola da dove, a turno, venivano presi, cosparsi di zucchero, arrotolati e divorati (specie dal sottoscritto) a velocità impressionante.
La carne, quella, si vedeva poco; un'occasione era il Natale, giorno in cui le mamme preparavano l'arrosto. A tal fine il pollo (comprato vivo e portato in casa due giorni prima di Natale dal babbo) dopo aver passato la notte con noi (immagino con quali sinistri presagi), il mattino successivo veniva velocemente soppresso tramite tiratura di collo, e, dopo un'altra giornata nella quale poteva frollare bene bene, veniva poi spennato accuratamente, sventrato, pulito (senza buttar via niente, per carità!) e, dopo essere stato preparato dentro e fuori con tutti i crismi (sale, aglio, rosmarino, olio e un pò di pepe) veniva adagiato, insieme ad una quantità industriale di patate (perché tante? costavano poco) nella teglia d'alluminio che, il giorno del Santo Natale, portavo religiosamente da Tocco, il fornaio. Tocco la disponeva nel forno (lasciato acceso apposta dopo aver sfornato il pane) accanto ad altre decine di teglie consorelle; qui gli arrosti natalizi rosolavano a dovere fino a mezzogiorno quando mi mandavano a riprendere la teglia. Portata a casa la teglia col pollo fumante faceva bella mostra di sé profumando tutta la cucina, poi, dopo aver mangiato le tagliatelle fatte in casa col sugo di carne (di pollo, ovviamente) veniva portata trionfalmente in tavola (apparecchiata con le posate "bone", e con i tovaglioli e la tovaglia del corredo della mamma) dove, similmente a decine di famiglie fontebrandine simili alla mia, veniva celebrato il rito della consumazione "del pollo arrosto".
Miseria c'era a quei tempi, in Fontebranda come altrove, e sbarcare il lunario era impresa tutt'altro che facile per le povere famiglie che si stavano appena rimettendo in piedi dopo una guerra disastrosa, ma il Natale era il Natale e, posso giurarlo, non ho più mangiato un pollo più saporito, croccante e profumato di quello preparato dalla mamma, cotto da Tocco, e portato in tavola, sulla tovaglia bianca, come quello.