domenica 14 agosto 2011

I Giochi - 2 - Spade e zufoli

In quei tempi bisognava far conto di quello che si aveva e di quello che si poteva avere: poco. Le pistole, con o senza fulminanti, ci permettevano un tipo di gioco-battaglia (oggi si chiamerebbero "giochi di ruolo") che, a lungo andare, poteva annoiare. A noi ragazzi, ci annoiò dopo pochissimo tempo. O che gusto c'era ad avere una pistola (fosse pure una di quelle a tamburo, coi fulminanti a capsula e da riporre in una fondina di plastichetta marrone moscia moscia che si teneva appesa alla cintola dei pantaloni) se poi, gira e rigira, tutto quello che ci si poteva fare era tirarla fuori nel modo più "ganzo" possibile (come s'era visto fare a Alan Ladd, al "Senese"), farla roteare (come faceva John Wayne, anche lui visto al "Senese") e limitarci a premere il grilletto (con: botto di fulminante o semplice "Bum!" con la bocca) gridando "Morto!" al nemico di turno (quasi sempre uno di noi sorteggiato nella parte del pellerossa, ruolo oltremodo antipatico che nessuno voleva fare). A parte le contestazioni ("Non m'hai preso!"; "Ho sparato prima io!"; "Non vale!") era sempre la solita solfa; mancava il contatto, il pericolo, l'abilità insomma; era solo un piccolo miglioramento del vecchio "nascondino", gioco praticatissimo nei dintorni dell'Incrociata anche se noi lo schiamavamo "ringuattarello".
Insomma, le pistole ci vennero a noia presto; passammo ad altro.
Seguì un periodo che, sull'onda di certi film di cappa e spada come "Scaramouche", "Le avventure di Lagardère", "I tre moschettieri" e "Capitan Blood", si videro le lastre di Fontebranda infestate da ragazzini tarantolati che, uno contro l'altro o schierati in gruppi, erano sempre a far duelli a "spadate" (con le "spade" che si costruivano andando a cercare tra le piante di sambuco che crescevano intorno al "Rastrello" quelle più adatte, quelle con i rami lunghi, dritti e dello spessore giusto, che sembravano fatti apposta per essere trasformati, tolta la scorza, in temibili facsimili delle celebri arme bianche). Da un estremo all'altro: qui il contatto c'era, eccome! Non passava sera che, dopo qualche ora trascorsa a menare e ricevere fendenti, qualcuno non tornasse a casa pieno di lividi e sbucciature o con la camicia strappata. Anche queste sfide all'arma bianca, avversatissime dalle nostre famiglie, non potevano durare. Che fare?
Non so chi fu il primo. So solo che un giorno, senza che si sapesse chi, come e perché, qualcuno introdusse anche da noi, l'arte della cerbottana.
Questa sì che era un'arma seria. Innanzitutto tirava proiettili veri; di carta, ma veri. E poi non ammetteva contestazioni: se eri colpito, eri colpito. Permetteva di ideare strategie, di sperimentare tattiche, di sviluppare qualità balistiche... Per farla breve la cerbottana ci piacque subito; a tutti. In un amen Fontebranda fu invasa da decine di ragazzi pronti a sfidarsi a colpi (meglio: a soffi) di cerbottana. 
La cerbottana
Non c'era un ragazzo in Fontebranda che andasse in giro senza la sua cerbottana. Le prime erano ricavate da un pezzo di canna il più possibile dritta che veniva tagliata da nodo e nodo, ma come la manìa delle cerbottane si diffuse, si cercarono nuovi materiali. Prevalsero quelli di metallo, ricavati da una parte di quell'asta lunga e forata al suo interno (dove passa il filo elettrico) che serve per tenere il lampadario appeso al soffitto. Si fecero cerbottane di ferro, di stagno, di ottone; ognuno teneva la sua come fosse un piccolo tesoro. Io volli strafare.
Tramite un amico elettricista il babbo mi aveva portato in regalo un pezzo di portalampadario in rame; appena l'ebbi visto decisi che quella sarebbe stata la mia cerbottana. Era lunga poco più di 30 centimetri e aveva un diametro di circa un centimetro scarso. Era drittissima, lucida e brillante come l'oro ed io la tenevo come fosse un tesoro. La lucidavo in ogni occasione e, dopo averla schiacciata un poco, avevo smerigliato con la carta vetrata (per renderla meno spessa) quella estremità che sarebbe divenuta l'imboccatura. La lunghezza della mia cerbottana era ideale per poterla nascondere dentro la manica, sotto la camicia anche se andare in giro a quel modo mi costringeva a tenere il braccio rigido in maniera palesemente innaturale (essendo lo zufolo più lungo dell'avambraccio). Con le cerbottane davamo vita a battaglie infinite dove ci si sfidava in ogni modo; strada contro strada, portone contro portone, finestra contro finestra... Cosa si tirava con le cerbottane? Gli zufoli, ovvio. Lo zufolo (il proiettile della cerbottana) si costruiva al bisogno (ci si metteva meno di 5 secondi!) arrotolando, a partire da un angolo, una striscia di carta la cui punta poi si saldava con la saliva, rigirandosela in bocca. Se poi lo zufolo era fatto con la carta oliata, quella lucida e spessa, era stretto e lungo, chiuso bene, tagliato a misura e se si sapeva usar bene la lingua, ecco che si poteva lanciare a distanze notevoli (sparar fuori lo zufolo, a saperlo far bene, era una specie di arte; una volta, in Piazza del Campo, lanciai uno zufolo fino all'orologio della Torre del Mangia).
Ognuno di noi usciva di casa già pronto per la battaglia, con la cerbottana in mano o nascosta dentro la manica e, appesi alla cintola dei pantaloni, un mazzetto di strisce di carta della lunghezza giusta, bell'e pronte per divenire zufoli appena ce ne fosse bisogno. Io e altri come me, uscivamo di casa con altri tre o quattro zufoli bell'e pronti infilati tra i capelli. Scelti chi sarebbero stati i compagni e chi i "nemici", via con la battaglia!. Riparati nei portoni o dietro gli angoli delle strade cercavamo di colpirci a vicenda soffiando zufolate pazzesche a ripetizione. "Preso!"; "Morto!"; le urla rintronavano per le strade intorno all'Incrociata, gli zufoli sfrecciavano incrociandosi come saette da ogni parte rischiando di colpire chiunque passasse da quelle parti tanto che i rumori della battaglia, i richiami delle mamme dalle finestre, preoccupate che qualcuno non finisse accecato, e i frequenti "State attenti, figliol di tr..ie!" di qualche passante un pò lezzo capitato in mezzo a quel fuoco di sbarramento risuonavano tutto intorno formando in quei pomeriggi di primavera una specie di particolare cacofonìa polimorfa, così gioiosamente minacciosa, popolare e sguaiata e che, anche chi, sopra pensiero, non sapesse effettivamente dove fosse capitato, non poteva far altro che convenire, tra sé e sé: "Càvolo; qui siamo davvero in Fontebranda!".

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