mercoledì 26 ottobre 2011

Lèssico fontebrandino - Offese-

Nonostante a Siena ci si vanti (e a ragione) di esser nella città dove si parla il miglior italiano d'Italia (Siena è, si dice, "la madre lingua italiana") c'è da dire che ai miei tempi nei dintorni dell'Incrociata (oggi non so, dato l'imbarbarimento lessicale dovuto all'orrendo impatto globalizzante multimediatico e multietnico che imperversa fagocitando ogni diversità), anche se l'italiano fontebrandino colà esercitato era di universale ed immediata comprensione, esistevano però alcuni modi di dire, alcune parole autoctone e certe scorciatoie dialettiche che difficilmente sarebbero state comprese dai "forestieri" che, attirati dai pittoreschi scorci o da una visita al Santuario di Santa Caterina, si fossero avventurati tra quelle viuzze e quei vicoli ocaioli che costituivano il nostro regno indiscusso, un regno dove si faceva a "modo nostro" in tutto, anche nel parlare, e se ne andava fieri.
Prendiamo le offese. Noi non si diceva quasi mai "scemo" e, meno che mai, "grullo" (ridicolo e criticatissimo termine fiorentinese). Tolleravamo l'italianissimo e perentorio "imbecille" che andava bene per certi motivi in cui l'offesa doveva essere particolarmente "forte" ed incisiva, mentre "cretino" e "stupido", benché non disdegnati (specialmente nelle poche famiglie benestanti), erano considerati, e a ragione, portatori di un'offensività moscia, poco incisiva, da usarsi, scuotendo il capo, per certe mancanze veniali, sciocchezze o poco più.
Le vere offese fontebrandine erano altre, tante, belle e varie e venivano usate in ogni occasione di lite o disaccordo a dimostrare la nostra disapprovazione per un fatto, una azione, una frase o un comportamento che ritenevamo degno di censura e riprovazione pubblica (le nostre offese erano sempre rivolte al destinatario davanti a tutti e gridando, per di più).
Si partiva dal blando "strullo", una specie di incompleto sinonimo dell'altro usatissimo (ma non autoctono) "bischero", che veniva utile per definire colui che aveva compiuto un'azione ridicola o ingenua o sbagliata platealmente e comunque fallimentare. Devo dire che "strullo" più che rimarcare l'azione, qualificava la persona. Dopo due o tre volte che uno aveva fatto qualche strullata ecco che diventava lui, personalmente e indelebilmente, uno "strullo" o anche, benevolmente, uno "strullone".
"Ma che gli vòi dì a quello. O un lo sai che è strullo?" si diceva di uno dedito alle "strullate", e si evitava di dargli qualche incarico importante da portare a termine come, ad esempio, fare una commissione o avvisare qualcuno di presentarsi ad un certo appuntamento, pena, se quello ne combinava una delle sue, di sentirsi dire: "Ma che sei matto a dare l'incarico a quello lì. Lo sanno tutti che è strullo!".
Per altre mancanze un pò più gravi (ma sempre in riferimento a mancanza di prontezza o a lentezza di riflessi) si poteva usare, a scelta, "rimbambito" o "rincoglionito". Mentre il primo termine si attagliava a perfezione a colui che si dimostrasse particolarmente duro di comprendonio o restasse in immobilità estatica laddove ci sarebbe stato invece bisogno di decisione e di spirito di iniziativa, il più severo "rincoglionito" era usato più che altro in ambito familiare attagliandosi a perfezione al nonno che a tavola aveva fatto cadere per la terza volta in un minuto il tovagliolo o, detto dalla moglie, al marito reo di tornare a casa senza essersi ricordato di prendere le "paste" il giorno in cui a pranzo c'erano i parenti (di lei). Devo anche notare che "rincoglionito" era per lo più pronunciato con un tono severo ed una espressione di profondo disgusto nello sguardo come a suscitare, nel destinatario, un senso di estrema e irrimediabile vergogna come ad esempio nel caso in cui, di fronte ad una dimenticanza del marito, la moglie lo apostrofasse così: "Oh! Io 'un lo sò più che devo fà. E' un pò di tempo che sei proprio rincoglionito". Di fronte a tale offesa al poveretto non restava da far altro che evitare di rispondere ed uscire velocemente di casa per andare a cercar conforto dal vinaio.
Ma l'epiteto offensivo più originale che risuonasse tra le piagge ed i vicoli di Fontebranda, quello più usato da grandi e piccini, maschi e femmine, giovani e vecchi, era senza alcun dubbio il bellissimo "sciabordìto" (a mio avviso la più creativa fra le offese non solo di Fontebranda, ma di Siena tutta). 
Sciabordìto era colui che faceva uno scherzo stupido o pericoloso; colui che non sapeva controllarsi ed esponeva al ridicolo un amico; colui che, cercando di far lo spiritoso, allungava le mani a sproposito su una ragazza; colui che compiva un atto illogicamente volgare e che, per sembrare spiritoso, risultava poi offensivo. Sembra che il termine derivi dal verbo "sciabordare" a voler indicare una testa troppo ampia per il cervello che contiene, al punto che questo ci sta troppo largo ovvero "ci sciabòrda".
Naturalmente, come per tutte le altre, anche questa offesa richiedeva il suo modo particolare per esser proferita all'indirizzo del destinatario. Si poteva semplicemente dire a voce alta: "O sciabordìto!!" (indirizzando lo sguardo al destinatario), oppure: "Che popò di sciabordìto!" (guardando i presenti a sollecitarne appoggio e solidarietà). In casi più gravi si poteva usare, scuotendo lentamente il capo, con le labbra strette e a voce bassa come a dimostrare l'inutilità di una qualsiasi forma di correzione o di perdono e indirizzandosi al destinatario, un: "Che vòi che ti dica: sei proprio uno sciabordìto".
Insomma si può dire che a quei tempi (tempi difficili) se c'era una cosa che non ci mancava, in Fontebranda, era la varietà di offese che avevamo a disposizione. E noi se ne approfittava.

giovedì 6 ottobre 2011

GIOCHI DA STRADA - I tappini

Divisi tra la cronica mancanza di soldi disponibili (ce n'erano pochi per tirare avanti in famiglia, figuriamoci per darli a noi!) e la necessità (ché tale è per gli adolescenti) di trovare un modo divertente per poter giocare in compagnia, ecco che dalle parti dell'Incrociata la creatività dei giovani fontebrandini non cessava di sperimentare sempre nuovi giochi la maggior parte dei quali, rivelandosi un flop nel gradimento della benedetta masnada stradaiola, veniva abbandonato dopo pochi giorni di insoddisfacenti sperimentazioni.
Il fatto è che il gioco che volevamo (anche senza saperlo esprimere) era un tipo di gioco tutto particolare: era insomma un gioco che doveva avere alcune caratteristiche.
1: non doveva (ovviamente) costare niente;
2: doveva coinvolgere il maggior numero di ragazzi possibile (nell'Oca ci piace socializzare);
3: doveva svolgersi all'aperto, possibilmente in un ambiente facilmente controllabile dalle mamme, sempre preoccupate di sapere dove ci trovavamo;
5: doveva essere un gioco agonistico senza essere pericoloso, uno in cui si poteva vincere o perdere e ci si poteva confrontare con gli altri.
Passata l'epoca dei giochi guerreschi (pistole, spade, archibugi e cerbottane) dove, tutto sommato, la strategia di base era semplice e ripetitiva, e prima che le nostre esistenze fossero prese dalla passione per il pallone, un eterno ringraziamento ed una menzione d'onore va senza dubbio a colui che per primo introdusse presso i ragazzi di Siena in generale, e di Fontebranda in particolare, la nobile arte dei tappini.
Tappini
Il tappino (in italiano: tappo a corona) è quella specie di coroncina metallica, larga su per giù come una moneta da 2 euro (26 mm. ad esser precisi) e alta poco meno di mezzo centimetro che serve a chiudere ermeticamente le bottiglie delle bibite. All'epoca (si parla della fine degli anni Quaranta) cominciava ad esser di moda a Siena, specie la domenica pomeriggio, arrivare con la famiglia fino alla Lizza e poi sedersi ad uno dei tavolini del "Leccio" per sorseggiare una bibita. La più richiesta era l'aranciata, ma c'era anche la classica gazzosa, il chinotto e  la birra anche se quest'ultima stentava ad affermarsi in una città dove il predominio etilico tra i ceti popolari e contradaioli appartiene da sempre, di diritto, al "gotto di rosso" ed al bruschello. La scena era sempre la stessa. Uno si sedeva al tavolino, faceva la propria ordinazione e se aveva chiesto, mettiamo, un'aranciata, ecco che dopo poco arrivava il cameriere con un vassoio dove c'era il conto, la bottiglietta ed un bicchiere. Un gesto rapido, da esperto; la bottiglietta veniva stappata (clok!), l'aranciata scendeva schiumando nel bicchiere ed il cameriere, ringraziato, si allontanava. 
Il tappino cadeva a terra.
Di tutta l'operazione questa era quella che più mi interessava: il tappino era lì, ai miei piedi! Bastava chinarsi, raccoglierlo e metterselo in tasca. Naturalmente una escursione al "Leccio" non poteva esaurirsi con la cattura di "un" tappino (e oltretutto di mia proprietà data la sua appartenenza alla "mia" aranciata) pertanto, dopo la consumazione restavo nei paraggi a raccattare tutti i tappini che trovavo tra i tavolini fino a che, con le tasche piene zeppe, potevo tornarmene a casa.
Con i tappini si potevano fare due diversi tipi di gioco: a "pista" o "a bollassi", ma in ogni caso essi dovevano essere preparati adeguatamente. Ebbene, proprio l'arte della preparazione dei tappini divenne una delle mie specializzazioni più apprezzate. Dopotutto non era difficile; innanzitutto (ecco la parte più delicata) si dovevano togliere al tappino le ammaccature e le piegature  subite durante la stappatura. Per questo bastava posizionarlo con la parte interna verso l'alto, appoggiarlo su una superficie dura e piana, inserirvi una moneta da 10 lire o un "diecione" (una vecchia moneta fuori corso) e dargli alcune piccole martellate in modo che la pressione a poco a poco raddrizzasse la superficie sottostante. Una volta che questa era diventata sufficientemente piatta il tappino veniva bagnato e sfregato più e più volte sulla pietra serena della strada fino a che raggiungeva la desiderata scorrevolezza.
Tappino: a destra la parte interna da personalizzare con i colori delle squadre di cislismo.
  
Primo gioco con i tappini: Pista.
Per giocare a pista ci volevano due o più giocatori, ognuno dei quali munito di tappino, un pezzetto di gesso (o di carbone, solo per ripiego) e un posto abbastanza largo e tranquillo dove giocare: la strada. In quegli anni per le strade dell'Incrociata (la Galluzza e Via Santa Caterina) non passavano né auto né motori, pressoché inesistenti, e i passanti (tutte persone della Contrada) non trovavano niente da ridire se disegnavamo la nostra pista (che rappresentava né più né meno il Giro d'Italia) proprio nel bel mezzo della strada. La pista (un anello oblungo, irregolare), tracciata con il gesso o, in mancanza di questo, col carbone che allora non mancava, doveva avere alcuni requisiti per piacerci ancora di più. Innanzitutto doveva essere piena di curve e poi la sua larghezza doveva andare dai 20 ai 30 centimetri anche se ogni tanto era bene restringerla fino a non più di 10 per renderla più difficoltosa; una linea che la tagliava a metà costituiva la Partenza e il Traguardo. Il gioco consisteva nello spingere avanti a turno il proprio tappino  con un colpo sferrato con un dito (un "biscotto") senza uscire dai bordi tracciati col gesso che delimitavano la pista. Chi usciva, doveva riportare il proprio tappino da dove l'aveva spinto (perdendo così un turno); chi "tagliava" (caso che si verificava se il tappino usciva dai bordi ma poi vi rientrava  fermandosi dentro la pista) doveva ripetere il tiro: queste erano le regole principali. C'era anche la possibilità di "raddrizzare" le curve che consisteva nello spostare il proprio tappino, prima di effettuare il tiro, lungo l'asse longitudinale ai bordi della pista. Chi per primo completava il giro della pista aveva vinto "la tappa" (ogni giro di pista rappresentava una tappa del Giro d'Italia; il ciclismo era senza alcun dubbio lo sport più seguito in quegli anni) e tenevamo una classifica per determinare chi, dopo alcune tappe avrebbe potuto esser dichiarato vincitore del nostro personale Giro d'Italia. Il gioco fu ancor più perfezionato con la personalizzazione dei tappini. La Gazzetta dello Sport, il giorno precedente alla partenza del Giro stampava in una pagina i nomi di tutti i partecipanti suddivisi in squadre, squadre delle quali erano riportati i colori sociali. Ebbene io passavo giornate intere a disegnare su un cartoncino dei cerchi delle dimensioni di un tappino che poi completavo con i colori della squadra e il nome del corridore. Poi ritagliavo i cerchi di cartoncino così preparati e li inserivo nell'interno dei tappini (ne avevo più di cento). Mi ricordo che un anno avevo tanti tappini quanti erano i corridori che partecipavano al "vero" Giro d'Italia, e tutti con i nomi e i colori giusti delle loro maglie.
Prima di cominciare il Giro d'Italia ognuno sceglieva di "essere" un certo corridore ed io gli fornivo il tappino personalizzato.
Il gioco della pista fatto con i tappini fu per almeno un anno la vera passione di tutti i ragazzi dell'Incrociata. In certi pomeriggi fra Via della Galluzza, Via Santa Caterina e vicoli adiacenti c'erano quattro piste con almeno venti ragazzi accovacciati accanto al proprio tappino in attesa di potergli dare il biscotto vincente. Naturalmente ci si conciava come bastoni da pollaio (sempre con i ginocchi in terra, sempre a sdrusciarci sulla pietra serena...) e le mamme non gradivano.. poi c'era il baccano infernale (anche se a noi non faceva nessun effetto) che saliva dalle strade dove ci si accalcava intorno alle piste ma tutto sommato si trattava di inconvenienti saltuari. Vuoi mettere la soddisfazione di vincere una tappa? E quella di poter trionfare al Giro d'Italia con il proprio tappino col nome del campione preferito? Impagabile.
Poi, (come tutte le cose) passò. Prese campo il secondo gioco con i tappini; un gioco questo che si basava non solo sulla abilità tecnica, ma anche e soprattutto sulla tattica e la strategia: a "bollassi".


Secondo gioco con i tappini: a "bollassi".
Per giocare a "bollassi" (o meglio: a bollarsi che sarebbe a dire a scontrarsi, a incocciarsi, a colpirsi) non ci vuole nemmeno la pista; bastano due giocatori (ognuno con il proprio tappino) e uno spazio sufficientemente largo per effettuare i tiri. Il primo giocatore piazza il proprio tappino a terra, in un punto a sua scelta; l'altro giocatore fa altrettanto.
In questo gioco anche la tecnica è importante; ad esempio nel modo in cui si sferra il "biscotto". Mentre a "pista" si spingevano i tappini con dei biscottini calibrati, precisi, mirati, tirati prevalentemente con l'indice che faceva leva col pollice, per giocare a bollassi era indispensabile saper tirare "biscotti" diversi a seconda delle situazioni. Per effettuare un tiro potente, da lontano, era meglio affidarsi ad un potente biscotto sferrato con il medio che faceva leva sul pollice, mentre per certi piccolissimi spostamenti o per far uscire il proprio tappino da una posizione precaria (vicino ad un muro, dentro una buca..) era meglio tentare con un biscottino tirato con il pollice  a contrasto con l'indice. (A forza di tirar biscotti quasi tutti noi ragazzi avevamo un callo alla base dell'unghia del dito indice o del medio; per quanto mi riguarda ricordo che ero riuscito a sviluppare un tipo di biscotto così potente che con un tiro riuscivo a far percorrere al tappino tutta la lunghezza della Piazzetta del Portico dei Comuni!)
Ora il gioco vero e proprio (che consiste nel colpire col proprio tappino, o "bollare", quello dell'altro) può cominciare e ogni giocatore, a turno, dà un biscotto al proprio tappino spostandolo da dove si trova. Se il tappino dell'avversario "si vede" (non ci sono cioè ostacoli che impediscano un tiro diretto) si può, calcolando la distanza, tirare direttamente per colpirlo (ed in tal caso risuonava il grido del vincitore: "Bollato!") ma calibrando la velocità in modo che, in caso di bersaglio mancato, il nostro tappino non resti in una posizione troppo favorevole al successivo tiro dell'avversario. Se invece non è possibile tirare per colpirlo (perché è nascosto dietro ad un ostacolo o perché è troppo lontano) allora si effettuano tiri di aggiustamento, o di avvicinamento o di copertura.... insomma quando parlo di strategia c'è una ragione. A "bollassi" era un giochino niente affatto banale; il primo gioco "adulto", un misto tra il biliardo e uno di quei giochi moderni che si chiamano "di ruolo".
Essendo un pò più grandi di quando giocavamo a pista, non ci accontentavamo più della gloria: in caso di vittoria il perdente era tenuto a dare qualcosa al vincitore. Ricordo che noi giocavamo di "giornalini" (i giornali a fumetti erano la più grande fonte di letteratura estrascolastica per i ragazzi di quei tempi e non c'era ragazzo che non avesse in casa pile di "Pecos Bill", "Topolino", "Tiramolla", "Il vittorioso" e dell'Intrepido, per dire dei più diffusi); personalmente ero diventato talmente bravo a "bollassi" che in breve tempo riuscii a vincere tanti di quei giornalini (la maggior parte dei quali al Bozzi, tanto per non far nomi) che non sapevo più dove metterli.
A "bollassi" era e rimane (anche se nessuno ormai lo gioca più) uno dei giochi più belli e appassionanti che esistano.
E oggi i ragazzi dicono che non sanno come fare a passare il tempo!
Un tappino di Aranciata ROVETA








martedì 6 settembre 2011

Sulle scale

Io, Mario e Luciano
Caldo, doveva far caldo, a giudicare dalle maniche corte. E poi, si vede che non ci s'aveva niente da fare, così in quell'estate degli anni Cinquanta (a occhio il 1954 o il 1955), eccoci in posa tutti e tre (io, Mario Parmigiani e Luciano Collini) sulle scalette accanto al pozzo del Santuario di Santa Caterina. 


La foto è
sintomatica di un'epoca che mi appare remota. Ma te l'immagini oggi tre ragazzi di 14-15 anni vestiti in questo modo? (scarpe "normali" con calzini, maglietta e pantaloni stirati..) Te li immagini in una posa come questa? (seduti, calmi, composti, sguardi sull'obiettivo..). Nessuno che indossi le infradito, i bermuda a fiori o la t-shirt con il logo e la scritta cubitale sul petto; e nessuno che faccia gesti strani, tiri fuori la lingua o mimi un accenno di rissa, così, per ridere..
Ne è passata di acqua sotto i ponti e non si sa più se si stava meglio quando si stava peggio...

lunedì 5 settembre 2011

LESSICO FONTEBRANDINO - Gazzillori

Il gazzillòro(così si chiamava noi) è un coleottero. E' infatti uno scarabeo, grande più o meno quanto la prima falange di un dito, di un bellissimo color verde "metallizzato" con riflessi color rame; a volte, a inizio Primavera, qualcuno di questi animaletti si poteva trovare nelle strade di Fontebranda. Ora non venite a chiedermi come faceva un insetto di tal fatta ad arrivare in Via della Galluzza piuttosto che in Via Santa Caterina o nel Vicolo del Tiratoio perché non saprei che dirvi; fatto è che c'era.

I ragazzi più piccini (ma mica tanto) se ne servivano per un passatempo leggermente perverso. Si legavano una estremità di un lungo filo ad un dito della mano, annodavano l'altra estremità ad una delle gambe posteriori del povero animaletto e poi lo gettavano in aria: il gazzillòro apriva le ali per volarsene via ma, essendo attaccato al filo era costretto a girare in cerchio intorno alla testa del suo carceriere, con il caratteristico ronzìo dei coleotteri incavolati. Da qui il divertimento del suo proprietario e degli altri ragazzi che assistevano alle evoluzioni obbligate dell'insetto. Ci si divertiva con poco, a quei tempi.
Per ora lasciamola qui; riprenderemo l'argomento fra un pò. Ora, dovete sapere che a Siena, oltre ai senesi, c'era un'altra categoria di persone. Erano persone come noi all'apparenza ma diverse per alcuni particolari. Erano i: "contadini".
Per essere definito "contadino" ci voleva poco; bastava esser nato fuori dalle mura. Attenzione: contadino non era il mezzadro, né il coltivatore (diretto o meno), né colui che viveva del lavoro nei campi; contadino era quello che, non essendo nato "nelle lastre", "aveva pagato il Dazio" per venire in città.
L'appellativo derivava dai tempi  in cui le porte della città di Siena, chiuse alla sera, venivano  riaperte alla mattina, e una piccola folla di contadini (questi veri), ortolani e piccoli allevatori provenienti dalle campagne circostanti, faceva la fila davanti allo sportello del Dazio per pagare la tassa richiesta per poter entrare in città e vendere i loro prodotti.
Ora, nel dopoguerra, le porte della città restavano sempre aperte e il Dazio non c'era più, ma "i contadini" (almeno quello che la tradizione popolare considerava gli attributi di tale gente) restavano.
E poiché i contadini erano facilmente riconoscibili sopratutto per il grande, tozzo ombrello di ruvida tela verde che portavano immancabilmente con sé, il popolo di Siena rapportando il verde di tale ombrello con il colore del ronzante coleottero, fatta una facile traslitterazione logica, chiamò i contadini, semplicemente, facilmente, irrimediabilmente: gazzillòri.

"Gazzillòri" furono quindi chiamati (per estensione) tutti coloro che risiedendo, non nella città vera e propria, nell'unica e originale "Sena Vetus", bensì "fuori dalle mura", non avevano il diritto (e non lo avrebbero mai avuto fossero campati cent'anni) di venir considerati senesi genuini, senesi veri, senesi doc.

Questi disgraziati si sentivano dar del "gazzillòro" non appena si azzardavano incautamente a metter bocca su argomenti riservati solamente a noi, gli eletti; noi che avevamo avuto la fortuna di esser nati "nelle lastre" e potevamo a buon diritto parlare di tutto quello che riguardava Siena e le sue tradizioni; a loro era vietato occuparsene e non gli era permesso metter bocca su questioni di Palio, di Contrada, di famiglie senesi, di ricette tradizionali, di storia, di usanze nostrane e comunque di argomenti risalenti alle tradizioni contradaiole e senesi in generale. Se uno di costoro si provava ad obiettare, che sò? su come si gira la bandiera, o dove corrono i confini di una certa contrada, o su chi era nipote di chi, o su quanti Pali avesse vinto il tal fantino, o se nei carciofi lessi ci va il dragoncello, c'era subito uno che, con la solidarietà di tutti i presenti, lo redarguiva con l'epiteto infamante: "Ma ti zitti te, gazzillòro!".
A poco a poco il termine divenne un attributo comune, usato per indicare qualche comportamento desueto, o qualunque atteggiamento cafonesco o eccessivamente naif..
Bisognava stare anche bene attenti a come ci si vestiva (anche se la varietà che ci era permessa era pochina...). Se i pantaloni erano lunghi o avevano la rovescia (al tempo dei primi jeans); se i capelli erano troppo corti o con la scrinatura nel mezzo; se la giacchetta era troppo stretta; se la camicia era troppo fuori misura... occhio!
Poteva scattare (e stavolta a prescindere se si era nati dentro o fuori le mura) il temutissimo commento (fatto a voce altissima, meglio se in presenza del maggior numero di persone presenti, con la mano tesa a indicare senza possibilità di scampo il disgraziato oggetto del pubblico ludibrio): "Ma te lo badi te, che popò di gazzillòro!!".

domenica 21 agosto 2011

Vita in Fontebranda. 1. Polli e rivolti

C'è da dire che in quegli anni in Fontebranda c'era un sacco di botteghe; erano di ogni tipo e tutte situate vicino all'Incrociata.
Ad esempio, in Via Santa Caterina, scendendo si sarebbe trovato subito il carbonaio, importantissimo allora (mi riferisco alla fine degli anni Quaranta e ai primi degli anni Cinquanta) quando sia per cucinare che per riscaldarsi il carbone era indispensabile; dall'altro lato della strada c'era poi  Mentana, con la sua bottega di frutta e verdura, e, dieci metri più giù, sulla destra, il forno di Tocco. Salendo la via invece ecco, subito il frequentatissimo negozio di alimentari del Bini e, pochi metri più su, dall'altro lato della strada, la bottega del lattaio. Proprio all'Incrociata c'era poi il vinaio, una specie di osteria con vendita del vino al dettaglio che permetteva agli avventori anche di sedersi ad un tavolo e mangiare il cibo portato da casa. In via della Galluzza si trovavano due botteghe di falegname e il barbiere mentre, proprio in cima alla Costa di sant'Antonio, esisteva pure una bottega di macellaio, ambiente pochissimo frequentato dalle famiglie ocaiole causa penuria di materia prima (nessun riferimento alla carne: erano i soldi che mancavano). 
Insomma occasioni di far spesa c'erano, in Fontebranda, al punto che uno poteva benissimo non andare mai "insù" tanto tutto quello di cui aveva bisogno lo avrebbe trovato nel raggio di cento metri dalla cannella dell'Incrociata.
Ho già parlato della mancanza cronica di soldi ma mangiare bisognava pur mangiare e anche in Fontebranda, ad esser sinceri, il pranzo con la cena si riusciva a metterli insieme.
Devo dire che le mamme erano impagabili; il termine "creatività" tanto usato (e spesso a sproposito) in questi tempi non riesce a dare l'idea di come dovevano ingegnarsi per dar da mangiare alla famiglia, specialmente se c'era un bambino.
Ricordo grandi pastasciutte col "sugo finto" (un battuto soffritto di carota, pomodoro, sedano e "erbucce" che dava alla pasta, se non la sostanza, ma almeno un colore che richiamava quello del ragù di carne), varie minestre estemporanee tutte a base di "dado" (i dadi in casa mia non mancavano mai) e a volte la "farinata con gli scriccioli", incredibile minestra "raccattata" fatta di farina bollita nell'acqua alla quale venivano aggiunti, per dargli un pò di sapore, alcuni pezzettini di pane fritti nell'olio (gli scriccioli, appunto). Per il resto insalate, patate, tonno, aringhe, baccalà, affettàti, frittate di varie specie e, in certi casi di grave penuria di materia prima, i mitici "rivolti", che la mamma cucinava, uno ad uno, lasciando cadere in una padellina di ferro dove aveva messo a friggere due gocciole d'olio, un cucchiaio di pastella fatta di acqua e farina. La pastella si spandeva nella padella formando una specie di "crepe" (si direbbe oggi, alla francese) sottile sottile fino a che, cotta da un lato, occorreva "rivoltarla" (ecco il perché del nome) dall'altro. Per fare questa operazione il termine creatività è insufficiente; bisogna aggiungerci un altro termine: abilità. La mamma toglieva per un attimo la padella dal fuoco e, tenendone il manico con le due mani, dava un breve, ma deciso colpo all'insù. Il "rivolto" cotto a metà volava in aria e, dopo essersi opportunamente "rivoltato", ricadeva nella padella dall'altro lato! Fantastico, stupendo!. Una volta pronti i rivolti venivano disposti uno sull'altro su un piatto messo al centro della tavola da dove, a turno, venivano presi, cosparsi di zucchero, arrotolati e divorati (specie dal sottoscritto) a velocità impressionante.
La carne, quella, si vedeva poco; un'occasione era il Natale, giorno in cui le mamme preparavano l'arrosto. A tal fine il pollo (comprato vivo e portato in casa due giorni prima di Natale dal babbo) dopo aver passato la notte con noi (immagino con quali sinistri presagi), il mattino successivo veniva velocemente soppresso tramite tiratura di collo, e, dopo un'altra giornata nella quale poteva frollare bene bene, veniva poi spennato accuratamente, sventrato, pulito (senza buttar via niente, per carità!) e, dopo essere stato preparato dentro e fuori con tutti i crismi (sale, aglio, rosmarino, olio e un pò di pepe) veniva adagiato, insieme ad una quantità industriale di patate (perché tante? costavano poco) nella teglia d'alluminio che, il giorno del Santo Natale, portavo religiosamente da Tocco, il fornaio. Tocco la disponeva nel forno (lasciato acceso apposta dopo aver sfornato il pane) accanto ad altre decine di teglie consorelle; qui gli arrosti natalizi rosolavano a dovere fino a mezzogiorno quando mi mandavano a riprendere la teglia. Portata a casa la teglia col pollo fumante faceva bella mostra di sé profumando tutta la cucina, poi, dopo aver mangiato le tagliatelle fatte in casa col sugo di carne (di pollo, ovviamente) veniva portata trionfalmente in tavola (apparecchiata con le posate "bone", e con i tovaglioli e la tovaglia  del corredo della mamma) dove, similmente a decine di famiglie fontebrandine simili alla mia, veniva celebrato il rito della consumazione "del pollo arrosto".
Miseria c'era a quei tempi, in Fontebranda come altrove, e sbarcare il lunario era impresa tutt'altro che facile per le povere famiglie che si stavano appena rimettendo in piedi dopo una guerra disastrosa, ma il Natale era il Natale e, posso giurarlo, non ho più mangiato un pollo più saporito, croccante e profumato di quello preparato dalla mamma, cotto da Tocco, e portato in tavola, sulla tovaglia bianca, come quello.

domenica 14 agosto 2011

I Giochi - 2 - Spade e zufoli

In quei tempi bisognava far conto di quello che si aveva e di quello che si poteva avere: poco. Le pistole, con o senza fulminanti, ci permettevano un tipo di gioco-battaglia (oggi si chiamerebbero "giochi di ruolo") che, a lungo andare, poteva annoiare. A noi ragazzi, ci annoiò dopo pochissimo tempo. O che gusto c'era ad avere una pistola (fosse pure una di quelle a tamburo, coi fulminanti a capsula e da riporre in una fondina di plastichetta marrone moscia moscia che si teneva appesa alla cintola dei pantaloni) se poi, gira e rigira, tutto quello che ci si poteva fare era tirarla fuori nel modo più "ganzo" possibile (come s'era visto fare a Alan Ladd, al "Senese"), farla roteare (come faceva John Wayne, anche lui visto al "Senese") e limitarci a premere il grilletto (con: botto di fulminante o semplice "Bum!" con la bocca) gridando "Morto!" al nemico di turno (quasi sempre uno di noi sorteggiato nella parte del pellerossa, ruolo oltremodo antipatico che nessuno voleva fare). A parte le contestazioni ("Non m'hai preso!"; "Ho sparato prima io!"; "Non vale!") era sempre la solita solfa; mancava il contatto, il pericolo, l'abilità insomma; era solo un piccolo miglioramento del vecchio "nascondino", gioco praticatissimo nei dintorni dell'Incrociata anche se noi lo schiamavamo "ringuattarello".
Insomma, le pistole ci vennero a noia presto; passammo ad altro.
Seguì un periodo che, sull'onda di certi film di cappa e spada come "Scaramouche", "Le avventure di Lagardère", "I tre moschettieri" e "Capitan Blood", si videro le lastre di Fontebranda infestate da ragazzini tarantolati che, uno contro l'altro o schierati in gruppi, erano sempre a far duelli a "spadate" (con le "spade" che si costruivano andando a cercare tra le piante di sambuco che crescevano intorno al "Rastrello" quelle più adatte, quelle con i rami lunghi, dritti e dello spessore giusto, che sembravano fatti apposta per essere trasformati, tolta la scorza, in temibili facsimili delle celebri arme bianche). Da un estremo all'altro: qui il contatto c'era, eccome! Non passava sera che, dopo qualche ora trascorsa a menare e ricevere fendenti, qualcuno non tornasse a casa pieno di lividi e sbucciature o con la camicia strappata. Anche queste sfide all'arma bianca, avversatissime dalle nostre famiglie, non potevano durare. Che fare?
Non so chi fu il primo. So solo che un giorno, senza che si sapesse chi, come e perché, qualcuno introdusse anche da noi, l'arte della cerbottana.
Questa sì che era un'arma seria. Innanzitutto tirava proiettili veri; di carta, ma veri. E poi non ammetteva contestazioni: se eri colpito, eri colpito. Permetteva di ideare strategie, di sperimentare tattiche, di sviluppare qualità balistiche... Per farla breve la cerbottana ci piacque subito; a tutti. In un amen Fontebranda fu invasa da decine di ragazzi pronti a sfidarsi a colpi (meglio: a soffi) di cerbottana. 
La cerbottana
Non c'era un ragazzo in Fontebranda che andasse in giro senza la sua cerbottana. Le prime erano ricavate da un pezzo di canna il più possibile dritta che veniva tagliata da nodo e nodo, ma come la manìa delle cerbottane si diffuse, si cercarono nuovi materiali. Prevalsero quelli di metallo, ricavati da una parte di quell'asta lunga e forata al suo interno (dove passa il filo elettrico) che serve per tenere il lampadario appeso al soffitto. Si fecero cerbottane di ferro, di stagno, di ottone; ognuno teneva la sua come fosse un piccolo tesoro. Io volli strafare.
Tramite un amico elettricista il babbo mi aveva portato in regalo un pezzo di portalampadario in rame; appena l'ebbi visto decisi che quella sarebbe stata la mia cerbottana. Era lunga poco più di 30 centimetri e aveva un diametro di circa un centimetro scarso. Era drittissima, lucida e brillante come l'oro ed io la tenevo come fosse un tesoro. La lucidavo in ogni occasione e, dopo averla schiacciata un poco, avevo smerigliato con la carta vetrata (per renderla meno spessa) quella estremità che sarebbe divenuta l'imboccatura. La lunghezza della mia cerbottana era ideale per poterla nascondere dentro la manica, sotto la camicia anche se andare in giro a quel modo mi costringeva a tenere il braccio rigido in maniera palesemente innaturale (essendo lo zufolo più lungo dell'avambraccio). Con le cerbottane davamo vita a battaglie infinite dove ci si sfidava in ogni modo; strada contro strada, portone contro portone, finestra contro finestra... Cosa si tirava con le cerbottane? Gli zufoli, ovvio. Lo zufolo (il proiettile della cerbottana) si costruiva al bisogno (ci si metteva meno di 5 secondi!) arrotolando, a partire da un angolo, una striscia di carta la cui punta poi si saldava con la saliva, rigirandosela in bocca. Se poi lo zufolo era fatto con la carta oliata, quella lucida e spessa, era stretto e lungo, chiuso bene, tagliato a misura e se si sapeva usar bene la lingua, ecco che si poteva lanciare a distanze notevoli (sparar fuori lo zufolo, a saperlo far bene, era una specie di arte; una volta, in Piazza del Campo, lanciai uno zufolo fino all'orologio della Torre del Mangia).
Ognuno di noi usciva di casa già pronto per la battaglia, con la cerbottana in mano o nascosta dentro la manica e, appesi alla cintola dei pantaloni, un mazzetto di strisce di carta della lunghezza giusta, bell'e pronte per divenire zufoli appena ce ne fosse bisogno. Io e altri come me, uscivamo di casa con altri tre o quattro zufoli bell'e pronti infilati tra i capelli. Scelti chi sarebbero stati i compagni e chi i "nemici", via con la battaglia!. Riparati nei portoni o dietro gli angoli delle strade cercavamo di colpirci a vicenda soffiando zufolate pazzesche a ripetizione. "Preso!"; "Morto!"; le urla rintronavano per le strade intorno all'Incrociata, gli zufoli sfrecciavano incrociandosi come saette da ogni parte rischiando di colpire chiunque passasse da quelle parti tanto che i rumori della battaglia, i richiami delle mamme dalle finestre, preoccupate che qualcuno non finisse accecato, e i frequenti "State attenti, figliol di tr..ie!" di qualche passante un pò lezzo capitato in mezzo a quel fuoco di sbarramento risuonavano tutto intorno formando in quei pomeriggi di primavera una specie di particolare cacofonìa polimorfa, così gioiosamente minacciosa, popolare e sguaiata e che, anche chi, sopra pensiero, non sapesse effettivamente dove fosse capitato, non poteva far altro che convenire, tra sé e sé: "Càvolo; qui siamo davvero in Fontebranda!".

giovedì 11 agosto 2011

I Tornei di calcio 2 - Al Campansi

Insomma, il calcio ci aveva contagiato di brutto un pò tutti in Fontebranda, dopo che, stanchi di tirar calci a palloni confezionati con carta di giornale e spago per farli entrare in porte virtuali (identificate da due giacchette ripiegate a tre metri di distanza l'una dall'altra) su per la Galluzza, in Santa Caterina o (a rischio granatate) nella piazzetta del Portico dei Comuni, avevamo assaggiato il dolce profumo del vero football nei primissimi tornei organizzati al Costone.
Così, dopo il primo anno, ognuno di noi aveva cercato di guardarsi intorno per vedere se poteva entrare a far parte di una squadra un pò meno sgangherata e partecipare a qualche campionato "serio".
Beh, premesso subito che qualcuno ci riuscì e fu anche ingaggiato da squadre "vere", benché dilettantistiche, (penso a Stoppa, A Pancino, a Bembere, a Zanzara, a Enzo Vizia e ad altri per non parlare del più bravo di tutti noi, il grande Dudo Casini), nel nostro piccolo anche noi che eravamo un pò più scarsi ci si dette parecchio da fare.
Campansi, 1958. I 3 mancini: io, Luciano Collini e Enzo Vizia


Dopo i tornei del Costone si passò a quelli dell'Oratorio e successivamente alle partecipazioni ai campionati in "Commenda" (alias Istituto Campansi) dove le partite erano combattutissime e si risolvevano in sfide accanite fra squadre di tutta la città.
Che soddisfazione quando potevamo raccontare di come eravamo riusciti a battere la tale squadra o il modo in cui avevamo segnato quel gol spettacoloso!
C'è da dire che un bell'incentivo alla nostra passione per quello che era ormai diventato  il nostro gioco preferito la dette il mitico Padre Agostino. Padre Agostino era un frate dell'Ordine degli Olivetani (oltre che una bravissima persona) che, nominato Rettore della Basilica di Santa Caterina, aveva pensato che avrebbe potuto incrementare notevolmente il nostro attaccamento alla chiesa e la nostra frequenza alle funzioni religiose, sponsorizzando (diciamo così) la nostra passione per il gioco del calcio.
Organizzò una squadra (della quale furono chiamati a far parte tutti e solo noi, ragazzi di Fontebranda), acquistò maglie da gioco nuove (tutte uguali! col numero!), pantaloncini, calzettoni (ai parastinchi ognuno, se li voleva, ci si doveva pensare da sé) e, per i più bravi, persino scarpe da football (quelle coi tacchetti che tutti avrebbero voluto e che quasi nessuno possedeva, allora).
E per qualche anno non si limitò ad iscrivere la nostra squadra al campionato di Commenda ma organizzò anche partite amichevoli contro le formazioni giovanili di paesi vicini alla città, come Taverne D'Arbia, San Rocco e una volta (udite, udite!) anche contro la squadra dei giovani frati di Monte Oliveto (di cui tratterò in un altro capitolo perché ne vale la pena).
Erano partite mitiche, trasferte fatte con uno o due pullman alle quali partecipavano non solo i giocatori ma anche tutta una piccola folla di ragazzi, fidanzate, genitori, amici e conoscenti, tutti eccitati al pensiero di poter trascorrere una domenica diversa, all'aria aperta, ad incitare la "loro" squadra.
Che belle giornate! Che bei ricordi! Che bei tempi quelli, per noi che avevamo avuto la fortuna di essere nati e cresciuti proprio in quegli anni splendenti, e proprio lì, dalle parti dell'Incrociata!

P.S.
(Un ricordo e un saluto dovunque tu sia, caro Padre Agostino! Anche a nome di tutti i tuoi "ragazzi" di allora).


domenica 7 agosto 2011

I GIOCHI - 1 Pistole e fulminanti

In quegli anni in Fontebranda noi ragazzi non ci s'annoiava di certo; per divertirci bastava poco: si poteva addirittura scegliere tra cento giochi diversi e senza bisogno di giocattoli (che quelli si vedevano, e pochi, solo per il Ceppo o in certe ricorrenze straordinarie), e anche, parrà strano, senza bisogno della televisione, dei giochini elettronici, dei Wi-Fi e di tutte quelle seghe tecnologiche che rendono il cervello di chi ne abusa simile alla Piazza del campo la mattina del giorno che segue il Palio: una specie di caotica pattumiera. Noi invece l'avevamo la creatività; eccome se l'avevamo! La situazione generale di quei tempi a dire il vero aiutava molto il nostro spirito di iniziativa e contribuiva a sviluppare le inventive di ognuno. Dunque: soldi non ce n'erano, divertire bisognava pur divertirsi (eravamo ragazzi, diamine!) e così ci si arrangiava in mille modi. 
I nostri giochi avevano pochissime regole in comune: erano collettivi e si svolgevano in strada (tutto, accadeva in strada). Nella scelta dei giochi si andava secondo la moda del momento, sarebbe a dire: a sbornie. Uno tirava fuori un gioco nuovo e, se era interessante, tutti lo seguivano.
C'erano diversi tipi di giochi; parliamo dei giochi guerreschi.

Prima vennero le pistole. Siccome necessitava sborsare dei soldi (che non c'erano) le famiglie regalavano questo tipo di giocattolo principalmente a Natale, quando, bene o male, uno straccio di regalo bisognava pur farlo ai ragazzi! Si trattava di pistole di latta stampata o di piombo o di stagno e perfino (in alcuni casi) di ghisa (io ne avevo una di ghisa!). Le prime pistole erano mute e per farle sparare non si poteva far altro che gridare un bel "Pam!" all'indirizzo dell'avversario colpito. Poi vennero i fulminanti; premendo il grilletto della pistola, il cane batteva nel fulminante ed ecco un bel bòtto ad incrementare il realismo dell'azione. I primi fulminanti erano del tipo "a nastro"; erano cioè contenuti, uno di seguito all'altro su un nastrino arrotolato di carta rossa. Premendo il grilletto si faceva esplodere il fulminante e contemporaneamente avanzare il nastro di uno scatto. Oddio, spesso i fulminanti facevano cilecca (quasi "tutti" i fulminanti della mia pistola di ghisa, facevano cilecca): si premeva il grilletto, il cane scattava e non succedeva niente. Niente scoppio, niente botto, solo un puzzìcchio di fosforo bruciato; insomma, nessuna soddisfazione. Presto i fulminanti a nastro vennero soppiantati da quelli a capsula, che si inserivano nelle pistole a tamburo. Questi avevano il difetto (gravissimo) di essere più costosi ma, a dire il vero, non fallivano un bòtto. In quei giorni le strade intorno all'Incrociata risuonavano di scoppi (le battaglie a pistolettate, uno contro uno, o una banda di ragazzi contro un'altra, non finivano mai) e questi, mischiati ai "Fatela finita, figliol di tr...!" urlati dalle mamme alle finestre e dai rari passanti, contribuiva a fare di quei pomeriggi (che sarebbero stati banali e noiosi in qualunque altro luogo del mondo), delle specie di happening animatissimi e piene di confusione, grida, baruffe e rumori come oggi succede solo nelle più distinte discoteche, il sabato sera.
Le pistole erano diventate di moda, da noi ragazzi, da quando non passava settimana che al Senese, il cinema più popolare della città (e quindi il meno caro, e quindi il più frequentato dai ragazzi), non dessero un film "di indiani", e comunque, anche senza andare al cinema, sarebbero bastati gli amatissimi giornalini di Pecos Bill a farci sognare di poter rivivere anche da noi, in Fontebranda, le avventure che capitavano settimanalmente all'eroe, laggiù, nel selvaggio West.

Oddìo, con le pistole ci si divertiva il giusto (cioè poco) perché più di puntarla addosso al nemico e premere il grilletto non si poteva fare. E inoltre, come ho detto, c'era anche il rischio che il fulminante non scoppiasse o che sorgessero contestazioni su chi aveva colpito chi o chi era stato il primo a sparare. Risultato: la moda delle pistole durò poco. Avevamo bisogno di ben altro, noi.

sabato 6 agosto 2011

Il vestito buono

Bembere, Zanzara, il Marchetti e il Mugnaini (1952)
In questa foto del 1952 (abbastanza malridotta) ecco, in posa davanti ad un muro del Santuario di Santa Caterina, Roberto Barbagli, Luciano Collini, il Marchetti e il Mugnaini. Beh, per avere solo 11 anni, avevo già pensato di allineare i miei amici in ordine crescente di altezza: quando si dice possedere il dono dell'inquadratura!
La foto è un bell'esempio di "come eravamo". Probabilmente l'ho scattata di domenica o comunque in un giorno di festa dato che tutti i miei amici indossano il "vestito buono", con tanto di giacca e cravatta. Il Marchetti sfoggia anche un paio di pantaloni "alla zuava", prima tappa, allora, prima dei calzoni lunghi, mentre il Mugnaini è addirittura "elegante" con le sue scarpe bicolori e il fazzoletto che fa capolino dal taschino della giacca.
L'atmosfera della foto, impagabile per la sua capacità di far rivivere per un attimo un mondo che non c'è più, è calma, disinvolta e rilassata;  nella sua semplicità, una piccola, grande foto.

martedì 2 agosto 2011

Alla Taverna di Bacco (ex "Pocce di ghisa")

Dalla fine degli anni Settanta un rito che a poco a poco divenne imperdibile (anche perché "portava bene": da quando avevamo cominciato la Torre non faceva che ripurgarsi) era quello della merenda pre-Palio alla "Taverna di Bacco", in Beccheria. Da quando la gestione della trattoria era andata a Bu'apere (Mario Zazzeroni) e a sua moglie, prima di ogni palio, e cioè non appena il Campanone cominciava a rintoccare, ecco che in molti ci ritrovavamo davanti ad un tavolo e, seduti in strada, davanti all'ingresso della popolare trattoria, iniziavamo una merenda propiziatoria a base di crostini, pecorino, prosciutto, pilza e (tanto) vino bòno.

Un "gotto" propiziatorio
In attesa del momento più importante(quello della mossa, per intenderci), si scherzava, ci si prendeva in giro, si facevano i commenti più beceri sui passanti e, soprattutto, si intonavano a squarciagola tutti i canti ocaioli che conoscevamo, dall'immancabile "Paperone" a "Sèssempre...", da "Te lo dicevo Torre" a "E quand'ero piccino piccino" e via col repertorio.
L'appuntamento alla Taverna di Bacco (o, come alcuni dicevano, da "Pocce di ghisa" in omaggio ad una precedente e non dimenticata ostessa dell'esercizio) divenne propiziatorio e c'è da dire che finché durò (poi, si sa, le cose cambiano, e in peggio) la Torre non si azzardò nemmeno per sbaglio a vincere un Palio. Ma questo, si sa, in quegli anni (e anche in questi), era abbastanza normale.
Nella foto del 16 Agosto 1979, davanti alla "Taverna".
Da sinistra: il sottoscritto, Ernesto Zazzeroni (semicoperto), Aldino, Sandro Brizzi (Stoppa), Giuseppe Bertini, Bu'apere e Onis Feri.

lunedì 1 agosto 2011

La prima macchina fotografica

Io con Senio al Rastrello (1962)
Senio era bravissimo a pallone; forse il più bravo tra tutti i miei coetanei e spesso andavamo a San Prospero ad allenarci "a passaggi" (così si diceva) negli spazi tra gli alberi vicini alla fontana.


Una delle prime foto fu questa: ritrae il sottoscritto e Senio Sensi (in quel tempo eravamo inseparabili) in posa davanti allo stadio del Rastrello.
Saremo stati nel 1952 (o 53).
Come si vede siamo entrambi in pantaloni corti; io ho a tracolla la custodia della famosa Voiglandter e, quanto allo sfondo, più che uno stadio, rassomiglia ad una specie di campo coltivato (la Serie A era lontana, allora).

venerdì 15 luglio 2011

I Tornei di calcio

Quando arrivammo all'età giusta, ci prese a tutti (ai maschi, intendo) la fissazione per il calcio. Dopo aver tirato calci a qualunque ora e per anni interi a palloni improvvisatissimi fatti di cartoni o stracci arrotolati e tenuti insieme da spaghi racimolati in qualche modo, correndo e affannandoci giù per le strade di Fontebranda, all'Incrociata o nella Piazzetta delle Fonti, ecco che questo non ci bastò più. Si cominciavano a formare squadre che poi partecipavano a tornei di calcio a 7 o a 9 che si tenevano al Costone, all'Oratorio (in via del Sole) o al Campansi. Chiamarle squadre era un pò azzardato visto che, specie nei primi anni, era manna se c'erano le magliette tutte uguali, poi, per quanto riguardava i pantaloncini e le scarpe, occorreva arrangiarci. Le squadre erano sovvenzionate (diciamo così) principalmente dalle parrocchie che fornivano le maglie, che poi dovevano essere lavate a turno, dalle famiglie di noi giocatori.

Questa immagine (mi risulta del 1955) mostra la formazione del San Domenico (maglia rossa e pantaloncini bianchi) in posa sul campino dell'Oratorio. Qualcuno di noi (io, Mario Parmigiani e Bèmbere) indossa la maglia direttamente sulla camicia.. Bémbere addirittura non si è levato nemmeno la cravattina bianca!.
La bellissima foto mostra, da sinistra a destra;
in piedi:
Enzo Cortecci, Angiolino (Barolle), Mario Parmigiani e me;
accosciati:
Senio Sensi, il portiere Coli (?) e Roberto Barbagli.
Non si sa il nome della squadra avevrsaria né come finì la partita...




r.m.

Come eravamo...

Ho sempre avuto passione per la fotografia, una passione che risale ai primissimi anni Cinquanta quando mio zio, avendone comprata una più moderna, volle regalarmi la sua (mitica) Voiglandter a soffietto. Mai regalo fu più gradito. Era una macchina in cui il mirino era costituito da un prisma che si traguardava dall'alto; conteneva un rullino da 9 fotografie e aveva bisogno di mille attenzioni ma per me era un tesoro. La portavo con me in tutte le occasioni anche se (bischero!) raramente mi venne in mente di riprendere le immagini della mia contrada e dei miei amici.

In questa rarissima foto abbastanza sfocata (e che risale alla metà degli anni Cinquanta) sono ripresi però ben 8 di noi, ragazzi dell'Incrociata, come mi piace chiamarli.
In piedi, da sinistra a destra:
Luciano Collini (Zanzara), Fabio Laini, Senio Sensi, Onis Feri e il sottoscritto (Biribissi);
accosciati:
Vittorio Rosi (Bersagliere), Mario (Buapére) e Roberto Barbagli (Bembere).
Siamo tutti allineati contro il muro davanti alla cancellata della Basilica di Santa Caterina.
La macchina fotografica era la mia ma non ricordo chi scattò la foto.
r.m.

venerdì 8 luglio 2011

L'Incrociata

L'Incrociata è il cuore di Fontebranda e quindi, della Nobile Contrada dell'OCA. Oggi meno, ma negli anni Quaranta, e per qualche decennio ancora, il fatidico punto dove Via Santa Caterina (che precipita, dritta come un fuso, da Via delle Terme fino alle Fonti) viene attraversata da Via della Galluzza (che scende da Diacceto e poi risale col nome di Costa di Sant'Antonio verso la scalinata posta davanti alla Basilica di Santa Caterina), era il luogo deputato ci si riuniva non appena potevamo per chiacchierare, giocare, cantare, scherzare, fare casino, accapigliarsi, e insomma, come si direbbe oggi, "socializzare".
L'incrociata era il centro della Contrada e, anche non era niente di speciale (due strade che si intersecano) c'è da dire che aveva proprio tutto per piacerci visto che era dotata di un comodissimo scalino ad altezza decrescente (in modo che ci potessero sedere proprio tutti), e di una simpaticissima fontanina. Questa, chiamata da tutti: "la cannella dell'Incrociata", era una di quelle tipiche fontane comunali a forma di colonnino, dalle quali, girando una manopola d'ottone, l'acqua fuoriusciva dalla bocca di una lupa; ed era l'ideale per bere, lavarcisi i piedi, schizzarsi, riempirne secchi e tegami se a casa l'acqua mancava, e far divertire in qualche modo la combriccola di ragazzi che, a decine, si trovavano sempre, a qualunque ora del mattino e del pomeriggio, in quei paraggi.
Via della Galluzza e la cannella dell'Incrociata

Io, che avevo la fortuna di abitare proprio a due passi dall'Incrociata, la consideravo un pò come un'estensione di casa mia dato che, come quasi tutti i miei coetanei, passavo quasi più tempo in strada che in famiglia ma c'è da dire che per me come per tutti gli ocaioli nati e cresciuti sulle "lastre" di Fontebranda, in quei difficili ma meravigliosi anni Quaranta e Cinquanta, l'Incrociata era il nostro regno.

 
Quelli dell'Incrociata © 2008